Dopo una breve pausa rilassante, ora vi tocca un altro mattone.
L’oggetto che percorre tutta la trama di questo racconto è assolutamente banale e altrettanto assurdo, qualcosa che quasi sicuramente, anzi tolgo il quasi, possediamo, almeno in una delle due accezioni.
Poteva bastare? Assolutamente no. Come una donna non può affermare di essere “un po’ incinta”, così io non me la sento di definire questo racconto “un po’ fuori di testa”. Lo è del tutto.
Se sarete così temerari da percorrerne la trama scoprirete che non c’è un lieto fine, ma nemmeno un finale drammatico, ce ne sono ben tre, diversi, coerenti ma incompatibili, e di questo trittico avete libertà di scegliere il finale che maggiormente vi aggrada, anche più d’uno, tutto dipende da quale interpretazione sarete meno spaventati.
Racconto
Trittico
Per strada
Ecco signori, ora vorrei attirare la vostra attenzione su un oggetto che tutti tranne me possiedono, non più almeno, ma non stupitevi troppo del fatto che io ne sia sprovvisto, vi prego, non anche voi.
Fateci caso, notate la bizzarria che contraddistingue gli abitanti di questa città, cioè a quale assurda imposizione loro accettano di adeguarsi. Magari voi preferireste vedere gli edifici, le strade, e gli alberi asfittici che fanno ala, udire la cacofonia di voci e rumori, percepire gli odori, di cibo stantio, di sudore, di fumo, e i profumi, da donna essenzialmente, ma sono soprattutto le persone che dovrebbero interessarvi.
Osservate come sono differenti per aspetto, portamento, età, di umore, censo e gusto! Giovani e vecchi, donne e uomini, madri e bimbi, mogli e mariti, da soli, in coppia, a frotte, un campione di umanità varia con un’unica cosa in comune: una valigia appresso.
Potreste supporre che ci troviamo nei paraggi di una stazione, di un punto di transito, di un grande albergo, ma sbagliereste. Questa è una qualsiasi via del centro, una come tante, ma state pur certi che anche altrove, da qui fino alle desolate periferie, trovereste che le persone, tutte le persone, hanno con sé una valigia, e anche chi sta guidando questo veicolo tiene in mano la sua bella valigia.
Persone diverse, valigie diverse.
Ecco che arriva di fretta un tipo azzimato con un’elegante valigia in pelle pregiata, quasi lucida; lì una donna di mezza età stringe il manico di una graziosa valigia di colore chiaro, forse di canapa con inserti in pelle; più avanti un ragazzo porta una valigia floscia con dei bozzi sulla superficie che ne denunciano l’uso disordinato e scapestrato; un uomo cupo in volto impugna saldamente la robusta maniglia della sua grossa valigia nera con le cinghie; toh, una bimba gioca a campana sul marciapiede, il percorso tracciato col mattone, salta e ride, ma non molla mai la sua piccola valigia rigida di bambù; un vecchio, ingobbito dall’età e dai rimpianti si tiene stretta la sua valigia di cartone piena come un uovo, dalla quale fanno capolino i brandelli di una vita.
Questa mania di trascinarsi sempre dietro una valigia io non l’ho mai capita, giuro.
Si comincia da bambini, appena si è capaci di tenere in mano qualcosa: ecco che arriva la mamma, oppure il babbo, o anche un parente premuroso, a metterci in mano la nostra prima valigina, a insegnarci come va portata, di cosa va riempita e perché non si deve abbandonarla mai.
Crescendo, cresce anche il contenuto della valigia, finché quella non basta più, scoppia, e allora eccone una più grande. C’è chi ama travasare pezzo a pezzo, dalla vecchia alla nuova, per guardare, ricordare, recriminare, e talvolta dispiacersi; i più si limitano a infilare la valigia ormai stracarica in quella nuova, più capiente, talmente più grande che la vecchia valigia si fa piccola e si rintana in un angolo per far posto a ciò che verrà dopo di lei. Così, di valigia in valigia, si arriva talvolta al punto essere costretti a trascinarsi dietro un bagaglio enorme e pieno come un uovo.
Ogni tanto capita che la valigia di qualche persona anziana non regga lo sforzo e ceda un po’ alla volta, fino alla resa totale. Le cerniere si allentano, le chiusure non mantengono la presa, le cuciture si strappano, e infine la valigia si apre di schianto. È uno spettacolo indecoroso e alquanto penoso quello di un vecchio che si trascina appresso, inconsapevole, una valigia completamente aperta, col coperchio che striscia sul terreno e una lunga scia di cose sue alla mercé di tutti di sguardi indiscreti.
Perché lì c’è tutta l’ipocrisia della nostra civiltà. La presenza della valigia deve passare inosservata, essa non dev’essere neppur nominata, però bramiamo di scoprire ciò che si cela al suo interno, in quella degli altri ovviamente, ma guai a darlo a vedere e men che meno si deve chiedere. Magari è proprio per questo motivo che hanno scelto me per accompagnarvi in questa visita.
I maggiorenti della città avranno fatto sfoggio del loro potere; i nostri più brillanti scienziati si saranno pavoneggiati con le loro ultime scoperte; i banchieri e i commercianti avranno aperto i loro forzieri per abbagliarvi con le loro ricchezze; avrete sentito vibrare il terreno sotto ai piedi a causa delle migliaia di soldati che marciavano a ranghi compatti per impressionarvi. Eppure delle valigie nessuno avrà posseduto l’audacia, loro direbbero la spudoratezza, di parlarvene, e così hanno scelto me, un disadattato, uno spostato, uno da rinchiudere perché ha l’impudenza di riconoscere ciò che osserva.
Voi che venite da un mondo lontano, avvolti in lunghi mantelli e il volto celato da un profondo cappuccio, voi comunque le potete vedere le valigie, sono fin troppo evidenti, e pure tutti loro sono consapevoli dell’esistenza di quegli oggetti ai quali si accompagnano, ma non potendovene parlare sono ricorsi a me approfittando di questo mio tragitto tra l’Istituto di Contenzione e l’ufficio del mio Esaminatore.
Vi prego di non fraintendermi, per me è un onore accompagnarvi, e vi confesso che mi sto divertendo un mondo in questo ruolo così inusuale.
Ecco, sbirciate con discrezione verso quella siepe, nella zona in penombra: due innamorati si stanno baciando; osservate come si stringono l’uno all’altra con un braccio e come stanno tenendo la loro rispettiva valigia dietro alle gambe, con noncuranza, quasi a ripudiarla; adesso quella è leggera, non la sentono nemmeno, si illudono di poterla dimenticare, di spiccare il volo senza quella zavorra.
Così non è purtroppo. Col tempo il peso della valigia li riporterà alla responsabilità, alla tradizione, alla sfiducia, al matrimonio. Saranno carini quel giorno con le loro sfarzose valigie della festa piene di auguri e di dubbi. Poi quelle valigie perderanno i fiocchi e i lustrini, diventeranno sempre più ingombranti e finiranno per ergersi come un muro invalicabile, un pretesto per non sentirsi, non capirsi, non amarsi.
Vi starete sicuramente chiedendo come facciano a riempirsi le valigie; è forse a causa di malefico sortilegio? Niente di tutto ciò, nessuna magia, nessuna maledizione: purtroppo è unicamente opera nostra. Per soprammercato, oltre a caricarci da soli, ci sono dei figuri i quali provano un perverso piacere nel trasformarci in animali da soma infilando nel nostro bagaglio del peso supplementare.
Vedete il tipo in grisaglia, quello con la faccia compunta che sta camminando a piccoli passi? È un religioso, un ministro del culto, una persona che facendo leva sulla paura imbottisce di piombo le valigie a forza di anatemi terribili, di castighi eterni, in grazia di dogmi indimostrabili e perciò inconfutabili, ossia il sacro verbo dalla nostra unica divinità: Sam.
A dire il vero, non è che la gente di qui segua proprio alla lettera i precetti di Sam, il più delle volte se ne fa scudo unicamente per tornaconto personale, nessuno di loro però manca mai celebrare come si conviene la festa religiosa più importante dell’anno, la notte del figlio di Sam, una sbornia di trite litanie, di rituali mummificati e di valigie piene di invidia, ingordigia, ipocrisia e solitudine. Dovreste vederla, è tremenda.
Non migliori dei predicatori sono i seminatori d’odio. Talvolta sfoggiano un fiero cimiero, altre volte invece prediligono un palco, un libello, un balcone, sempre e comunque col medesimo scopo, ossia mettere gli uni contro gli altri più che si può in nome di una bandiera, una moneta, un colore della pelle, una dottrina, una lingua, una terra da spoliare. Voi non avete idea di quanto possano pesare rancore, revanscismo, ostilità, intolleranza, e per quanto tempo si conservino vitali e malevoli all’interno di una valigia. Il carico talvolta risulta talmente gravoso da apparire insopportabile per una persona sola, tanto che esso deve venir dispensato allora anche ai figli, ai nipoti, ai vicini, una spartizione che invece di indebolirne gli effetti li aggrava. I nostri cimiteri sono pieni di persone schiantate dai carichi d’odio che trasportavano in valigia.
Quand’anche quei biechi personaggi non bastassero a rendere abbastanza oneroso quel fardello, ecco che altri ambigui figuri, medici, censori, moralisti, speculatori e maestri si preoccupano di ficcare ogni sorta di gravame nella valigia. A tradimento lo fanno, senza darlo troppo a vedere, assicurandoci che lo fanno per il nostro bene e, quel che è peggio, pretendendo di essere lodati per le loro premure.
Io, come ben vedete, non mi faccio ingannare, non possono opprimermi con i loro pesi e né tanto meno vado cercando di farmene di miei; niente valigia per me, sono libero.
Fin da piccolo non riuscivo a farmene una ragione. Quella zavorra mi era solamente d’impaccio, e così capitava spesso che me la dimenticassi in giro. La mamma si preoccupava per quell’atteggiamento che lei allora interpretava unicamente come “svagato”; andava alla ricerca della mia piccola valigia e, una volta ritrovata, me la rimetteva saldamente in mano accompagnando quel gesto con un blando rimprovero, oppure con qualche monito infantile del tipo “Chi non tiene la maniglia, viene il vento e se lo piglia”. Ridicolo, se non addirittura invitante, almeno per un bambino.
Allora mi abituai a portare sempre con me la valigia, però ogni tanto scappavo a vuotarne il contenuto in qualche fosso, oppure, se era una giornata particolarmente ventosa, andavo in un campo e la lasciavo aperta. Quanto mi divertivano tutte quelle cose assurde che ne uscivano, si sollevavano in alto e turbinavano sopra la mia testa, si impigliavano nei rami di qualche olmo, oppure svanivano, su, nel cielo azzurro, e così la mia valigia era sempre leggera come la schiuma di sapone.
Il mio comportamento comunque non passò inosservato, qualcuno fece la spia, ma né le lacrime di mia madre e né la cinghia di mio padre mi convinsero a tornare su quella che tutti consideravano “la retta via”. Finii che fui presto considerato un reietto, una persona da evitare, mi ritrovai isolato, a casa, a scuola, in paese, però non me ne curai troppo. Ero più che convinto della mia ragione, sicuro che anche gli altri, vedendo la mia libertà di movimento, si sarebbero presto resi conto dell’assurdità di quella loro pesante valigia che li affaticava. Come mi sbagliavo!
Appena fui abbastanza grande da sostenermi da solo salutai i miei e me ne fuggii da quel villaggio popolato da menti ottuse, per venire qui, in città, dove certamente le mie opinioni avrebbero trovato miglior accoglienza, e per buona misura mi liberai pure della valigia, che comunque era, come sempre, vuota. Mi sbagliavo nuovamente, e di grosso stavolta.
Il mio stato “libero” generava nel migliore dei casi scompiglio e riprovazione, e nel peggiore panico e svenimenti.
Nonostante fossi fornito di buona volontà, di carattere socievole e di un paio di braccia robuste non riuscii mai a scovare uno straccio di lavoro. Mi ritrovai così a dormire per strada, o sotto un ponte, e a rimediare dei vestiti e del cibo grazie a qualche opera pia, istituzioni caritatevoli presso le quali, assieme a un piatto di minestra calda, mi veniva sempre offerta anche una valigia alquanto logora, un oggetto che io sempre rifiutavo disegnando nei volti di quei benefattori costernazione e disapprovazione. Finché qualche notabile decise che la misura era colma, e con l’autorità della quale era investito mi internò nell’Istituto di Contenzione con l’obbligo di visite mediche periodiche presso l’ufficio di un Esaminatore. Che cosa ci sia tanto da esaminare proprio non lo capisco.
Guardate lì per esempio, in quel cantiere: anche per piantare un chiodo ci vogliono due manovali. E neppure l’architetto ha la vita facile, giacché non può usare nello stesso momento la matita e il righello, così lavora un po’ a occhio e i risultati, purtroppo, si vedono. Lo stesso discorso vale per i falegnami, i fabbri, i meccanici, per arrivare su, su, fino ai nostri più valenti studiosi e ai più abili artisti. Chissà che traguardi avremmo potuto raggiungere utilizzando tutte e due le mani!
Bene, possiamo scendere, siamo finalmente arrivati al palazzo dove lavora il mio Esaminatore. Tutta questa pietra grigia con sbalzi e rilievi massicci incute timore, e le rade finestre sono altissime, quasi a suggerire l’idea che al suo interno vi dimorino dei giganti, ma a me non fa più né fresco e né caldo. Comunque vi sarei grato se mi accompagnaste, così potrete rendervi conto di quanto siano insensate le domande del mio Esaminatore, e chissà che non riusciate a solleticare la sua vanità, quella di esibire la sua supposta perizia al cospetto dei Visitatori, rendendosi così ancora più ridicolo. Le guardie resteranno qui ad aspettarmi, alla base della scalinata, poiché dalla Casa degli Esaminatori è impossibile fuggire. Prego, vi faccio strada.
Ecco, questo è il suo ufficio, è vasto, ci si perde; entrate; come vedete egli già mi aspetta seduto dietro alla sua grande scrivania di legno scuro.
Ufficio dell’Esaminatore
Strano, appena entrato percepisco già del nervosismo; intravedo accanto al bracciolo della poltrona la sua mano che sta tormentando il manico di una valigia abbastanza voluminosa, e lo sguardo tradisce dell’eccitazione trattenuta.
– Vieni avanti, siediti prego, ti stavo aspettando. Sei pronto?
– Sono pronto Esaminatore, come sempre.
– Bene. Ormai ci conosciamo da un anno, e ti sei sempre mostrato abbastanza diligente.
– Grazie.
– Però… è da mesi che rifiuti di rispondere a una sola semplice domanda.
– Già.
– Lo sai cosa voglio sapere da te.
– Sì Esaminatore, lo so.
– E dunque dimmi, cosa tieni nella tua… ehm… valigia?
– Non ne ho idea Esaminatore, io non ho una valigia.
– Suvvia, rilassati, cerca di ricordare, visualizza la… valigia, aprila, cosa vedi al suo interno?
– Niente, non c’è niente, non ho una valigia.
Al solito noto che l’Esaminatore pronuncia la parola “valigia” con difficoltà, come se fosse una parola straniera appena imparata. Immagino che non ne afferri l’assurda pervasività, e anzi direi quasi che tenda a negarne l’esistenza.
Fa caldo nell’ufficio, così decido di togliermi la giacca. Afferro i baveri, li getto dietro alle spalle, poi sfilo le braccia dalle maniche, tutte e due contemporaneamente con un gesto sciolto, quindi prendo la giacca con le mani e l’appoggio sullo schienale della mia sedia. Lo faccio apposta per vedere il guizzo di disgusto nel suo volto, per intercettare l’esatto momento nel quale il suo sorriso mellifluo si trasforma in un ghigno da impiccato. Per quanto faccia il saccente, il mio Esaminatore non sopporta la vista dei miei movimenti fluidi, ma è solo un attimo, poi si ricompone immediatamente e riattacca con le domande. Egli non mi guarda mai in faccia, non cerca nel mio sguardo verità o menzogna, si limita a fissare un punto lontano alla sua destra e volge verso di me il fianco del suo volto. Di lui conosco ormai a memoria il profilo, più quel suo orecchio sinistro che sembra un pozzo in grado di raggiungere gli abissi più profondi della stupidità.
– Suvvia, non dire così, tutti abbiamo una… ehm… valigia, è una cosa normale, indispensabile.
– Perché?
– Ma te l’avrò già spiegato un centinaio di volte, la… valigia è necessaria, dimostra che si ha una coscienza, civile e privata, che si sa tenere i piedi per terra, e si ha da conto il comune sentire. È un segno di rispetto per la comunità, i suoi valori, la famiglia, il benessere, le tradizioni, e soprattutto verso la religione. Senza la valigia si è perduti, infelici, vuoti, inutili, altrimenti per quale motivo Sam ci avrebbe creato con una seconda mano?
– Non la vedo così tutta questa faccenda. Senza la valigia io sto benissimo, anzi sto meglio di tutti voi!
– Insomma, per l’ultima volta, concentrati, dimmi, ti prego, cos’hai di tanto terribile nella tua valigia da volerne serbare il segreto anche a scapito della tua libertà?
– Assolutamente niente.
– Allora è vuota?
– No, è che…
– Ah, lo vedi che c’è qualcosa. Suvvia, apriti, abbi fiducia, vedrai che dopo ti sentirai meglio.
– Non c’è niente perché non ho nessuna dannata valigia!
L’Esaminatore si abbandona sullo schienale della sua poltrona. Si vede che è contrariato ma non vinto. Anche i Visitatori stanno assistendo a questo assurdo interrogatorio. Mi stupisco del fatto che non abbiano ancora agguantato l’Esaminatore per scaraventarlo giù dalle scale del palazzo.
– E sta bene, come vuoi. Se non intendi parlare non mi lasci molta scelta.
Già immagino il passo successivo, la sua sentenza: internamento a vita nell’Istituto di Contenzione. Il suo giudizio è inappellabile, ma non me ne preoccupo più di tanto, so già come svignarmela da quel lugubre edificio. Tutto lì è stato pensato per ospiti che hanno solamente una mano libera, e per di più impediti da una valigia, mentre io invece ho entrambe le mani a disposizione e sono leggero come una piuma, perciò come una piuma prenderò subito il volo.
– Dovremmo rinchiuderti, questo lo sai vero?
– Sì, me ne rendo conto signor Esaminatore.
– Però tu sei fortunato.
– In che senso?
– Ti cureremo, e guarirai.
Ho difficoltà a immaginare come potrebbero “guarirmi”. Anche se mi mettessero in mano mille valigie le abbandonerei mille volte, e alla fine loro sarebbero costretti ad ammettere l’inconcepibile, ossia il fatto che io non ho una valigia e che non ne ho alcun bisogno. Comunque sono curioso.
– E come pensereste di guarirmi?
– Chirurgicamente, in maniera risolutiva.
– No!
– Certo. Intervenendo radicalmente rimuoveremo per sempre la tua menomazione, ti ridurremo a uno stato accettabile, e così, anche senza la valigia, potrai finalmente condurre un’esistenza normale come tutti noi.
– Ma… ma… Visitatori, perché non dite niente dinnanzi a tanta barbarie, perché non intervenite? Non afferrate la crudeltà dell’atto che vogliono compiere e quale irreversibile lesione sto per subire? Vi sembro forse io il malato da curare invece di questo macellaio cieco che mi interroga? Non vi sento pronunciare parole di sdegno, disgusto, condanna, e anzi vedo che annuite, che approvate la sua sentenza. Perché? Oh no! Ora forse ho capito… dunque anche voi avete… che errore il mio, che errore! Sono perduto!
Finale 1 – Dal punto di vista dell’uomo
In quel momento si apre una larga porta a doppio battente dell’ufficio, e quattro infermieri fanno silenziosamente scivolare verso di me una barella su ruote. Mi abbrancano e mi stendono sopra quel lettino anche se cerco di divincolarmi, ma quattro morse d’acciaio mi costringono a rimanere disteso. Solo In quel momento mi rendo conto di quanto forte possa essere una mano costretta a fare sempre doppia fatica.
Mi assicurano alla barella con delle cinghie di cuoio; ora sono pronto per andare al macello. Da qualche parte qualcuno sta piangendo e pronuncia frasi sconnesse: sono io.
– No, vi prego, non fatelo… lasciatemi stare… vi scongiuro, aspettate, dirò tutto quello che volete… no, no… aiuto!
La porta è rimasta aperta su un lungo corridoio e le sue luci sul soffitto mi abbagliano, ma io riesco lo stesso gettare ancora uno sguardo all’ufficio: c’è l’Esaminatore che non riesce a dissimulare la soddisfazione e l’impazienza, e scorgo i Visitatori, sempre solenni e imperturbabili, che si avvicinano alla barella per osservarmi meglio un’ultima volta, o forse per dirmi qualcosa. Strano, mi par di notare che ora hanno delle difficoltà a camminare, i loro movimenti sono lenti, legnosi, sbilenchi; c’è chi trascina una gamba, chi si muove come se usasse le grucce, e tendono a sorreggersi l’un l’altro. Sembrano una compagnia di sciancati.
Da qualche parte è stata aperta una finestra, un’improvvisa folata d’aria percorre tutto il corridoio, poi una porta viene chiusa con grande fracasso e torna la quiete. In quei pochi secondi di turbine il vento ha dischiuso il mantello dei Visitatori, sollevato qualche cappuccio, e io ho visto.
Corde e funi, liane e fettucce, spaghi e viticci, una ragnatela abbarbicata attorno alle loro gambe che si arrampica lungo il corpo fino alle braccia e alla testa per ostacolare i movimenti, limitarne l’ampiezza, bloccare ogni slancio, per arrivare persino a coprire occhi e orecchie. Il lungo mantello nasconde alla vista quei legami inestricabili e ferrei, nell’oscurità dell’ampio cappuccio si cela la tenebra della comprensione, solamente la veste deve apparire, e su quella i segni distintivi del potere, della ricchezza, della gloria. Niente valigia per i Visitatori, però nemmeno loro saranno mai liberi come lo sono io, eppure questo pensiero non basta a consolarmi mentre mi portano via.
Siamo arrivati nel luogo dove si compirà l’orrendo delitto e tutto attorno a me è di un bianco quasi accecante. Percepisco un odore strano, acre e dolciastro assieme, sconosciuto e disgustoso, niente di promettente. Gli infermieri se ne sono andati subito dopo avermi immobilizzato su un altro giaciglio, e ora intravedo alcuni fantasmi, i chirurghi probabilmente, che si agitano attorno a me mormorando parole incomprensibili. Qualcuno mi solleva il capo e mi fa bere a forza qualcosa di amaro, anche se ho ancora il fiato per urlare la mia disperazione, poi qualcuno mi blocca qualcosa tra le fauci e più di mugolare non riesco. Ogni tanto vedo balenare un riflesso dei ferri, li sento tintinnare mentre vengono sistemati accanto a me, ne sento già quasi il contatto freddo sulla pelle, tremo, la vista mi si offusca. Spero di svenire presto.
D’un tratto ecco la voce ben nota dell’Esaminatore, essa attira la mia attenzione, ma egli non sta parlando a me, si sta rivolgendo ai medici.
– Ecco, vedete? Dopo questa operazione il paziente potrà ritornare in seno alla società. Basta con gli Istituti di Contenzione, è ora di voltare pagina! È un nostro preciso dovere tentare di correggere ogni devianza, al fine di riportare il malato a uno stato decoroso per lui e per noi. Quest’uomo verrà salvato, sarà finalmente accettato, si troverà un lavoro, una moglie, avrà dei figli e vivrà un’esistenza gratificante. Di certo voi condividerete la mia soddisfazione e la gioia per averlo sollevato dalla sua infermità, ma ricordate che non è solamente nostro il merito, giacché sopra a tutti noi c’è chi ha permesso che ciò avvenga, e a Lui noi dobbiamo essere riconoscenti. Quest’uomo era malato e ora verrà guarito, rendiamo grazie a Sam!
– È giusto, rendiamo grazie a Dio. – Gli fanno eco da qualche parte, lontano, o troppo vicino, i Visitatori.
No! No, no, no, no…
Finale 2 – Dal punto di vista dei Visitatori
Da una porta laterale a doppio battente entrano quattro persone robuste vestite di bianco che portano una barella su ruote. Senza dire una sola parola sollevano di peso l’uomo dalla sedia e l’adagiano sulla barella. L’uomo è agitato, cerca di divincolarsi, ma non ha scampo, e gli vengono strette delle robuste cinghie di cuoio ai polsi e alle caviglie.
L’esaminatore osserva tutto con interesse distaccato e professionale. Fa un cenno, e subito la barella viene fatta scivolare fuori dall’ufficio attraverso la stessa porta dalla quale era comparsa, per entrare quindi in un lunghissimo corridoio illuminato a giorno. Man mano che la barella vi si inoltra il pianto e le urla dell’uomo arrivano all’ufficio sempre più fievoli, poi solamente un incerto riverbero, e poi più niente.
I Visitatori osservano l’Esaminatore: sta scrivendo qualcosa su un quaderno, probabilmente gli appunti per una relazione. Egli non si rende conto di avere di fronte coloro che potrebbero offrirgli molte delle risposte che va cercando a tentoni nel cervello dei suoi pazienti. È un vero peccato, poiché basterebbe chiedere.
La cosa più logica che l’Esaminatore dovrebbe fare è interrogarsi sul luogo di origine dei Visitatori, e loro avrebbero risposto senza la minima esitazione che provengono dalla valigia dell’uomo sulla barella, la valigia che quel poveraccio aveva abbandonata, ma nondimeno quella l’aveva mai abbandonato. Testardamente fedele come un’amante respinta, essa l’aveva sempre accompagnato in ogni suo passo, con discrezione, restando nell’ombra senza farsi notare. E anche prima aveva un bel vuotarla nei fossi, o farsi rubare il contenuto dal vento; le cose che egli vedeva sparire era tutto ciò che egli voleva guardare, ma molte di più erano le cose che non voleva vedere, giacché l’occhio, colui che tante volte chiamiamo a testimone affidabile, è cieco, poiché ha unicamente il compito di dare un contorno meno spaventoso alle immagini create dalla mente. Di conseguenza, man mano che quel giovanetto si liberava del contenuto visibile, egli permetteva che nella sua valigia cadessero i semi, la terra e il concime per far crescere l’edera che l’avrebbe soffocato. Questa si nutre delle paure e delle contraddizioni, dei dubbi e delle debolezze, della solitudine e degli istinti.
Ogni volta che il bambino, poi il ragazzo, e poi l’uomo rifiutava il carico che un “non lui” gli affibbiava, il suo spirito era libero, ma l’essere che era “lui dentro”, là dove l’occhio non ha potere, pativa in silenzio la singolarità e l’emarginazione. Anche la vanità, quella di chi si crede sempre nel giusto, veniva minata dalle incertezze della logica, ma per egocentrico riflesso risorgeva ogni volta fortificata. Si tratta degli stessi demoni che tormentano l’eremita, il santo e il genio, sono le liane che si arrampicano anche su uno spirito cristallino, sono sottili come capelli, ma si intrecciano a formare trefoli, e da quelli corde e funi che si avviluppano e si imbrogliano in nodi inestricabili. È la ragnatela i cui fili scorrono accanto a tutte le nostre vene e nella quale siamo allo stesso tempo ragno e mosca.
Quell’uomo, così indipendente, così particolare, sincero nel vedere e ingenuo nel pensare, nel momento topico della sua esistenza era riuscito a dare forma ai suoi demoni, a trovarli accettabili, almeno finché non si rese conto di quanto abominevoli e disgraziati fossero i figli dell’Es.
Questo pensano i Visitatori mentre sentono, anche a grande distanza, le grida dell’uomo, chiaramente, come se quello fosse ancora nell’ufficio, perché la sua disperazione è anche la loro disperazione, perché di quella si nutrono e da quella ricavano il nutrimento per l’uomo
L’Esaminatore scrive qualcosa sul suo quaderno, infine lo chiude con delicatezza, si alza ed esce dall’ufficio. I Visitatori lo seguono fin dentro la sala chirurgica, ascoltano le sue parole, osservano attentamente lo svolgersi dell’operazione. Nel momento preciso della “guarigione” sollevano per un attimo il cappuccio e lanciano un fugace sguardo alle spalle dell’Esaminatore, giusto un cenno rivolto ai Visitatori di lui, per poi dissolversi e tornare di nuovo nella valigia.
Finale 3 – Dal punto di vista dell’Esaminatore
Basta, l’esame è terminato.
Premo un pulsante nascosto sotto al ripiano della mia scrivania, ed ecco dopo qualche attimo che si apre la doppia porta laterale per far entrare gli infermieri con la barella. Prendono il paziente e lo legano con delle cinghie perché fa resistenza, si dibatte, scalcia. Ora il poveraccio si mette a piangere, supplica, promette, giura; è uno spettacolo penoso al quale però sono preparato, come del resto lo sono gli infermieri, gente esperta che sa già come muoversi.
Il paziente viene portato via, tutte le porte vengono chiuse, e finalmente ho un attimo di tranquillità. Ho dato ordine di non essere disturbato per nessun motivo. Ora che sono solo nel mio ufficio posso concentrarmi e riflettere su quanto sta per avvenire, all’uomo sulla barella, a me, alla scienza medica.
Apro il mio quaderno degli appunti, lo sfoglio fino a trovare la prima pagina bianca, quindi aggiungo la mia valutazione dell’esame odierno, ossia le conclusioni alle quali sono giunto.
Il soggetto, come sempre, non collaborava, anzi insisteva nella sua percezione visionaria della realtà. Egli, fin dal giorno del primo esame, è stato ossessionato da un’ipotesi alquanto bizzarra, quella che ogni persona ha sempre con sé una valigia. Scartata ovviamente la possibilità che ciò sia vero, restava da decidere se l’uomo fosse in malafede oppure se soffrisse di allucinazioni o di un altro disturbo similare. Purtroppo l’insistenza e l’intimo convincimento del soggetto hanno deposto a favore della seconda ipotesi, da cui la necessità di una terapia prolungata, che però non ha dato i frutti sperati.
Si è tentato dapprima di farlo recedere dalle sue assurde convinzioni dimostrandogli inconfutabilmente l’assenza di una qualsiasi valigia. Per quanto fosse palesemente in errore, il soggetto ha continuato a negare l’evidenza, anzi, per meglio dire, l’inesistenza, ribaltando su di me l’accusa di mistificazione della realtà.
Risultando improduttivo l’approccio logico si passò allora a una tecnica di indagine più sottile, dandogli corda, nella certezza che con essa prima o poi si sarebbe imbrogliato da solo e avrebbe compreso l’incoerenza dei suoi vaneggiamenti, fino ad ammettere il suo errore.
Così il soggetto venne illuso, si finse di accettare la presenza di tale fantomatico oggetto, chiedendogli però di rivelare qualcosa sul contenuto della valigia in suo possesso, ma quello se ne uscì con un’idea grandiosa: tutti avevano una valigia, tranne lui.
Per mesi io e il soggetto conducemmo quel gioco surreale, nel quale il primo chiedeva al secondo il contenuto di una valigia che non esisteva né per il primo e né per il secondo. Verso la fine il soggetto era diventato intrattabile, strafottente, senza speranza, e così era nata quell’idea di un intervento chirurgico per sanare la menomazione.
Oggi è il gran giorno. Se tutto procederà come previsto mi attendo un risultato stupefacente.
Ho finito; ripongo la penna e controllo se ho delle macchie di inchiostro sulle dita della mano destra. Sono pulite, però le unghie sono un po’ lunghe, e la forma non mi consente simili trasgressioni, perciò bisogna provvedere subito. Apro un cassetto della scrivania, prendo delle forbicine a lama curva e procedo a un’essenziale manicure. Ecco, ora sono a posto, come si conviene a una persona del mio rango.
Ripongo nel cassetto le forbici e torno a guardare il mio quaderno, le dita della mano destra, ora perfette, scorrono le righe di un testo perfetto, e intanto rifletto.
Certo è che il risultato di questa mia terapia radicale e risolutiva farà scalpore nell’ambiente medico. È probabile, ma che vado a pensare, è sicuro che verrò insignito del titolo di Maestro Esaminatore, la carica che mi spetta, alla faccia di quegli invidiosi che stanno sempre a mettermi i bastoni fra le ruote, a sparlare di me per rovinarmi la carriera. Ora mi vendicherò e potrò fare in modo che vengano licenziati. Non devo fidarmi di nessuno, tutti complottano contro di me, mi odiano, ma io li schiaccerò.
Come Maestro Esaminatore mi potrò permettere una casa più grande, con otto stanze almeno, e la servitù ovviamente, così mia moglie, quella vecchia arpia, la finirà finalmente di tormentarmi, di rinfacciarmi il fatto che lei era ricca prima di sposare un morto di fame. Mi rifarò il guardaroba per presentarmi come si conviene nella Società degli Eletti, con ori e gioielli. Sì, d’ora in avanti sarà quello il mio posto, anche a costo di indebitarmi fino al collo.
Poi farò erigere un altare elaborato e retorico, col mio nome in oro sulla pietra per garantirmi la benevolenza di Sam e dei suoi ministri.
È strano, ma quasi già non mi basta, e sto pensando a come diventare un Gran Maestro, per arrivare ancora più su, più potente, più ricco, più riverito; adesso non mi sento più così soddisfatto.
Ah, se fossi un Gran Maestro farei cacciare tutti i villici da qui. Via, via, quegli zotici che non sanno neppure esprimersi come si deve, che se ne tornino nelle loro terre lontane e che ci restino per sempre assieme alle mandrie e alle greggi! La città è dei cittadini, e a maggior ragione la Casa, che della città è il baluardo contro la barbarie e il caos.
La mano smette di accarezzare la carta, afferra la copertina color porpora del quaderno e la volge sopra le pagine, quasi a voler suggellare con quel gesto il mio successo di Esaminatore, quindi, quasi con riluttanza, l’abbandona. È ora che vada, i chirurghi mi staranno ovviamente aspettando: senza una mia parola non oserebbero muoversi. Penso che terrò loro un bel discorsetto di incoraggiamento, qualcosa che resti per i posteri a mia maggior gloria.
Che strano, proprio accanto alla mia poltrona ora c’è una valigia. Non l’avevo notata prima, chissà chi ce l’ha messa, e quando poi. Comunque mi intralcia il passo e tento di spostarla con un piede. Niente da fare, non si muove, allora afferro il manico per sollevarla dal pavimento. È molto pesante.
A questo punto vengo preso dalla curiosità, non solo per la stranezza di questa apparizione, ma anche per quel che potrebbe contenere, perciò decido di aprirla. Dopotutto io sono un Esaminatore, e inoltre questo è il mio ufficio, pertanto ritengo di avere tutto il diritto di indagare anche su questo oggetto così comune ma così misterioso.
Dall’aspetto è una valigia in pelle di buona fattura, color ardesia, con gli angoli rinforzati e le serrature in metallo satinato. Non sembra una valigia da campionario, non porta le rughe di una vita tribolata, e l’assenza della cinghia di sicurezza, a volte unico rimedio per i carichi straripanti, è sintomo di un uso diligente, quello di chi ama tenere le cose a posto, protette e ordinate. Il suo proprietario dev’essere una persona seria, di classe, di prima classe. Ma allora perché c’avrebbe messo dentro un’incudine pesantissima?
Rinuncio all’idea di appoggiarla sulla scrivania, perciò provo a ribaltarla sul fondo, direttamente sul pavimento. Va, anzi va in maniera sorprendentemente facile. Mi aspettavo che il movimento provocasse un fracasso tremendo, un tonfo causato dal gravoso contenuto, e invece niente, tutto si è risolto con un suono ovattato e uno sbuffo d’aria.
Faccio scattare le due serrature e sollevo il coperchio: è vuota.
Per meglio dire, sembra vuota, poiché me la figuravo piena zeppa di oggetti pesanti, quando invece a malapena si riesce a distinguere ciò che essa contiene. Tutto è piccolissimo e quasi diafano, perciò sono costretto a chinarmi per osservare meglio.
Scorgo un edificio, maestoso nell’architettura, e attraverso un’alta finestra di quello riesco a vedere una stanza con una larga scrivania in legno scuro. Davanti a quest’ultima c’è una sedia malamente ribaltata, e a terra sta una giacca grigia, mentre da dietro il ripiano della scrivania spunta lo schienale imbottito di una poltrona. Mi avvicino ancor di più e riesco a notare anche altri dettagli della stanza, indubbiamente un grande ufficio: ecco una piantana, un appendiabiti, una porta di ingresso e un’altra laterale a due ante. Sul lucido ripiano della scrivania, oltre a una lampada, un portapenne e un calendario, c’è un quaderno dalla copertina color porpora.
Sempre più vicino. Ora la valigia è enorme, mi sovrasta come una torre, ma io, come Esaminatore, devo arrivare a conoscere il contenuto di quel quaderno, perciò con un semplice passo avanti entro nella valigia, poi nella stanza, quindi giro attorno alla scrivania, apro il quaderno e leggo, riga dopo riga, pagina dopo pagina, sfiorandolo appena con le dita per timore si rovini.
La mano smette di accarezzare la carta, afferra la copertina color porpora del quaderno e la volge sopra le pagine, quasi a voler suggellare con quel gesto il mio successo di Esaminatore, quindi, quasi con riluttanza, l’abbandona. È ora che vada, i chirurghi mi staranno ovviamente aspettando: senza una mia parola non oserebbero muoversi. Penso che terrò loro un bel discorsetto di incoraggiamento, qualcosa che resti per i posteri a mia maggior gloria.
Mi allontano dalla scrivania, e con la mia valigia appresso mi avvio verso il lungo il corridoio piastrellato di bianco che porta ai laboratori, mentre le le doppie ante si chiudono lentamente dietro a me, frenate da un meccanismo silenzioso. Passando accanto a una finestra non posso fare a meno di ammirare per un attimo lo splendido panorama che si gode dalla Casa, i colli ubertosi e, più lontane, le imponenti montagne. Butto uno sguardo anche giù in strada. Compatisco tutte quelle piccole vite che si affannano come formiche, ignare del grande disegno di Sam e, perché no, anche di me e della mia importanza. Mi sento bene, sono padrone del mio destino, e ripensando ai deliri di quel disgraziato non posso che essere compiaciuto dalla mia esatta comprensione della verità.
Ecco, il grande ufficio nella Casa degli Esaminatori ora è vuoto; l’uomo, i Visitatori e l’Esaminatore se ne sono andati. Unica testimone di quel travaglio è rimasta una bella valigia di pelle, una valigia color ardesia, una valigia di classe, una valigia chiusa.