Ho appena terminato di leggere “Trenomania! Viaggio meraviglioso sui binari d’Europa” di Jaroslav Rudiš, e devo dire che ho fatto delle interessanti scoperte.
Le prime sono state ovviamente le tratte ferroviarie che l’autore ha percorso e che ha talvolta descritto aggiungendo un’aura di esperienza mistica. Oltre a raccontare di treni, paesaggi, aneddoti, a lui piace occuparsi anche delle stazioni nelle quali si trova a sostare, magari solo per uno spuntino prima di riprendere il viaggio. Ci sarebbero poi gli aspetti tecnici, ovvero quelli concernenti il materiale rotabile, con il focus centrato su quelle meraviglie della tecnica senza le quali il treno non sarebbe altro che una sorta di statico salottino su binari. Che siano a vapore, diesel o elettriche, l’autore evita di snocciolare dati o dettagli tecnologici, bensì ne tratteggia le storie, buffe o epiche, l’impatto sociale e, dettaglio divertente, l’origine dei loro soprannomi che superano l’asettica denominazione di serie.
La scoperta più sorprendente però riguarda le persone che del treno non “possono” fare a meno: gli aficionado.
Già l’autore ammette di conservare in casa una quantità innumerevole di orari ferroviari, pagine e pagine di partenze e arrivi, ore e minuti, coincidenze e prolungamenti, letti e cuccette, indici e rimandi, testi che non consulta ma legge, il tutto con lo stesso piacere che noi ne ricaveremmo da un patinato magazine. Va da sé che una tale messe informazioni conduce prima o poi al desiderio di far uscire quelle informazioni dal sottile supporto cartaceo per provarle di persona, su un treno ovviamente, ma se pensate che ciò sia il massimo per un appassionato di quanto corra su rotaia vi state sbagliando di grosso.
Jaroslav Rudiš si trova spesso a viaggiare con amici che dei treni sanno tutto, ma proprio tutto, vittime di un innamoramento che supera le caratteristiche di un passatempo, di un hobby, di una competenza tecnica e storica. Prendendo spunto dal tragico personaggio di Jacques Lantier, creato da Zola per il suo romanzo “La bestia umana”, l’autore fa un parallelo tra quel fuochista che tratta la sua locomotiva, la Lison, come fosse una donna, una buona moglie, e i suoi compagni di viaggio che amano tratteggiare le caratteristiche particolari per ogni motrice, qualcosa che si avvicina alla personalità, all’intenzione, all’alito vitale, come se all’interno della carcassa metallica invece che vapore, gasolio o energia elettrica scorresse del sangue. Con una sintesi perfetta lui li definisce “ferrosessuali”, e appare chiaro che di tale autentica dedizione si deve nutrire il massimo rispetto.
Non servirebbe aggiungere che questo libro ha trovato in me un lettore ben disposto ad assimilare con piacere tutte le informazioni riportate dall’autore con cura e gusto descrittivo e introspettivo, consapevoli (io e lui) del fatto che chi ama spostarsi in treno si adegua volentieri ai ritmi e ai tempi che quel viaggio comporta, e non è tipo da “volare” dalla prima all’ultima pagina, anzi ama soffermarsi, scendere dal treno, pardon, dal testo, per qualche riflessione, oppure per approfondire la conoscenza di qualche luogo, di qualche persona, di qualche treno. Appunto con questo mezzo a me piace viaggiare, già dovreste averlo capito, e ciò non deriva solamente da una personale avversione verso l’automobile e l’aereo (per il dirigibile vi farò sapere…) a causa del maggiore impatto ambientale, ma anche per la tendenza a preferire uno spostamento “slow” che mi permetta di percepire il viaggio come esperienza comprensibile e permanente. Però, vorrei essere sincero, ha il suo peso anche una componente psicologica, in quanto il treno suscita in me emozioni che non sono semplicemente ascrivibili a un’aura di romanticismo o di rifiuto tout court della modernità. Si tratta di memorie.
Ignoro l’anno di nascita di chi sta leggendo questo testo, e di certo le persone più giovani saranno ben abituate a muoversi con la speditezza e la comodità offerte dagli attuali mezzi di trasporto, ma un tempo non era così.
L’età comporta degli inevitabili fastidi, però garantisce una visione prospettica della realtà, nel senso che il passato, finché la mente ci concederà ancora di ricordarlo, può essere raffrontato al presente per una valutazione di quello e di questo. Il risultato è sempre duplice, ammessa e non concessa una certa dose d’imparzialità. Da un lato si possono constatare i passi in avanti, il superamento di vari problemi e l’avvento di interessanti tecnologie, mentre dall’altro non si può non essere pervasi da un senso di perdita, quella di una vita più semplice, di minori esigenze, di autenticità.
Il treno, in questo caso, non fa eccezione.
Quand’ero bambino le automobili erano pochissime, erano i tempi della 600 e giravano ancora delle vecchie 1100 con i fari esterni, però un treno merci passava ogni giorno davanti a casa mia, attraversando un ponte in acciaio che sormontava la via cittadina, su quegli stessi binari che un tempo facevano parte della gloriosa Wocheinerbahn, la Ferrovia Transalpina realizzata a fine ‘800 per collegare Trieste con České Budějovice via Jesenice-Linz.
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Cambiata casa cambiò anche il treno, sempre a vapore, sempre a poche centinaia di metri, proveniente dal porto e diretto in Carso, una linea dismessa sessant’anni fa e trasformata in una ciclopedonale nel 2010.
C’era poi a Trieste un treno a vapore che correva lungo tutte le Rive per collegare il Porto Vecchio col Porto Nuovo. Ai tempi della “Defonta” (l’Austria-Ungheria per chi non è di queste parti) era stato già stilato un progetto dettagliato per collegare i due porti con un tracciato che correva nell’entroterra della città, e quando il porto Francesco Giuseppe divenne operativo venne intanto realizzata una linea ferroviaria provvisoria lungo le Rive. Persa la guerra, quell’ambizioso progetto decadde e ciò che era “temporaneo” divenne, come di consuetudine italica, “ permanente”. Fino al 1981 era normale vedere un treno che attraversa il lungomare della città in mezzo a schiere di automobili e pullman che fiancheggiano le rotaie su entrambi i lati, e c’era anche qualche temerario che saliva sul predellino della garitta del frenatore per farsi scarrozzare.
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Il battesimo del treno lo ricevetti però solamente nel 1960, quando per motivi di salute dovetti recarmi a Tabiano Terme. Avevo già provato la “corriera” diretta in Cadore e il vaporetto diretto in Istria, viaggi che duravano al massimo una mezza giornata, ma il treno, per tutto il giorno poi, e chi se lo poteva immaginare…
Fino a Mestre restai col naso perennemente incollato al finestrino, ma fu quando mi trovai sul direttissimo per Bologna che compresi la terribile essenza del treno. Insomma, l’ebbrezza della novità era un po’ annacquata, e come ogni bambino che si rispetti mi stavo vagamente annoiando in quello stretto scompartimento marrone e beige, così mi fu permesso di uscire nel corridoio, che poi non faceva quella gran differenza. Mia madre doveva badare al mio fratellino, perciò non si rese conto che quel corridoio era per me un invito a esplorare il treno, magari solo per sapere se anche le altre carrozze erano come la mia (chissà cosa mi aspettavo di scoprire). Superato con estremo coraggio la passerella col soffietto (all’epoca, attraverso le fessure tra i giunti del pavimento, si riuscivano a scorgere la massicciata e le traversine) giunsi a una carrozza praticamente identica alla mia, ma rifiutai di arrendermi e proseguii verso la successiva, col medesimo deludente risultato. Di carrozza in carrozza giunsi inaspettatamente alla prima, quella giusto dietro al locomotore. Ovviamente la porta di testa era bloccata, ma accanto quella qualcuno aveva posato una sorta di scatolone supponendo che lì non avrebbe dato fastidio a nessuno, e non ci pensai un secondo a salirci sopra per arrivare al livello del piccolo finestrino.
Eravamo sulla linea che collega Venezia con Bologna, tutta pianura e zero curve, perciò il treno filava. Però non fu la velocità a impressionarmi, bensì la sensazione di forza inarrestabile che emanava il locomotore giusto a qualche metro da me. All’epoca non avevo la benché minima cognizione dei concetti della fisica quali accelerazione, inerzia, gravità, cinematica e quant’altro, però la vista di quel bestione grigio e verde che rollava sul binario, spesso con un andamento sfalsato rispetto a quello della mia carrozza, gli strattoni secchi che di tanto in tanto si avvertivano, il rumore sordo che ritmicamente segnava la fine della rotaia e l’attacco della successiva, ben diverso da quello che si udiva nel mio scompartimento, tanto da farmi immaginare che le ruote del locomotore picchiassero come magli sull’acciaio e da lì facessero tremare la massicciata sottostante trasmettendo attraverso quella i poderosi colpi fino alle suole dei miei sandali, tutto ciò dicevo diede forma nel mio immaginario a una sorta di figura mitologica, un Ercole d’acciaio che tutto poteva e che sarebbe stato in grado di superare con un balzo ogni distanza.
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Negli anni ci furono in seguito molti treni, altri viaggi, altre carrozze, vecchie centoporte per andare in montagna, soffocanti UIC SNCF fino a Calais, comodissime Corail in Alsazia, corte Talgo in Spagna, fumiganti motoráček in Boemia, perciò capita sovente che mi si chieda il perché di una mia predilezione per il treno. È presto detto, basta tornare agli anni ‘60 e ‘70.
In quegli anni l’aereo era un mezzo di trasporto a dir poco elitario. Nel 1965 un volo da Londra a New York costava il doppio dello stipendio di un impiegato, mentre oggi per la stessa tratta si spendono 400€. Lo stesso parametro valeva per i più brevi voli in Europa. Nel 1975 la mia paga era di circa 180.000 Lire, e spesi ben 150.000 Lire per un volo andata e ritorno Milano-Londra, charter ovviamente. Un volo Roma-Parigi costava 167.000 Lire, ovvero quasi il mio stipendio, mentre oggi uno se la cava con una cinquantina di Euro o poco più (ovviamente non pretendendo di partire il giorno dopo).
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Quindi per coprire grandi distanze un comune mortale doveva adattarsi a mezzi di trasporto più lenti e meno lussuosi. Quali le alternative? Beh, c’erano le navi, e fino a tutti gli anni ‘60 era la scelta obbligata per chi voleva attraversare l’oceano senza doversi svenare. Per le mete raggiungibili via terra si poteva pensare di utilizzare l’automobile, però non è che detto che tutti potessero permettersela. Andrebbe aggiunto che gli autoveicoli di sessant’anni fa non avevano l’affidabilità di quelli odierni, le loro prestazioni erano inferiori, e anche i vari aspetti riguardanti la comodità, quali il rumore, lo spazio interno, la climatizzazione, la facilità di guida, le sospensioni, differivano molto tra un’utilitaria (la più diffusa) e una macchina di lusso (solo per pochi). Per queste ragioni un lungo viaggio in automobile era spesso un’avventura dagli esiti non sempre prevedibili e con un carico di fatica non trascurabile.
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Chi non era automunito sceglieva allora il trasporto pubblico, e quello più capillare come copertura era costituito dagli autoservizi, le corriere extraurbane per intenderci. Un tempo le autostazioni erano frequentatissime, con un continuo viavai di passeggeri, e le rotte degli autobus di linea coprivano sovente anche distanze dell’ordine di centinaia di chilometri. Rimaneva sempre un certo deficit di comodità, nel senso che molte delle funzioni accessorie odierne non erano disponibili, niente aria climatizzata, niente WC a bordo, niente minibar per i passeggeri, niente TV, niente poggiapiedi, niente schienale reclinabile, niente luce spot per leggere. Inoltre lo spazio per i bagagli era limitato, e quello che non stava nella pancia o sulle cappelliere andava a finire sul tetto, su un portapacchi raggiungibile con la scaletta posteriore. Non servirebbe aggiungere che il rivestimento in finta pelle dei sedili li rendeva roventi d’estate e glaciali d’inverno.
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Quindi, a conti fatti, il treno ha sempre offerto in passato una valida alternativa a mezzi di trasporto più cari o meno efficienti. I vantaggi erano indiscutibili. Il costo in primo luogo, giacché l’aereo era inarrivabile e per viaggiare con la più abbordabile automobile si dovevano (e si devono) comunque affrontare delle spese che vanno sommate a quella per il carburante, ovvero l’imposizione fiscale, la manutenzione, l’assicurazione, la svalutazione del veicolo, eccetera. Non conosco quelle degli anni ‘60 e ‘70, ma non penso che si discostassero troppo da quelle odierne, e in un’automobile di fascia media si aggirano intorno ai 0,40 Euro per ogni chilometro percorso, quindi per raggiungere una località distante 500km si spendono 400 Euro tra andare e tornare, questo senza voler contare eventuali pedaggi e vignette. Permettetemi di aggiungere ancora un dettaglio. Immagino che lavorare senza compenso, a meno di svolgere dell’encomiabile volontariato, sia una condizione inaccettabile, eppure muovendosi in automobile proprio questo le persone fanno, lavorano gratis (ovviamente sto parlando di chi è al volante). Guidare è un lavoro, tra l’altro è un lavoro di responsabilità che richiede concentrazione e scrupolo, per questo motivo si paga il servizio di un autista per farsi scarrozzare, sia che si tratti di Uber o di un taxi, ma chi guida la sua automobile lavora senza compenso alcuno, e pare che si diverta pure.
Quindi, tirando le somme, cosa potrebbe esserci di più comodo ed economico che salire su un treno e lasciarci condurre a destinazione? Beh, magari in Italia le cose non vanno sempre per il verso giusto, sappiamo bene chi ringraziare, però ho girato mezza Europa in treno e non ho quasi mai incontrato problemi di una certa rilevanza.
Confesso che tutti i ragionamenti pratici si sommano a quell’innamoramento giovanile, quando ogni lungo viaggio, e quindi ogni scoperta, ogni esperienza, ogni avventura correva sui binari, e la carrozza del treno era percepita come una sorta di caravella diretta verso un nuovo mondo.
Ci sarebbe poi la questione delle proporzioni. Si ha un bel dire che “piccolo è bello”, però le dimensioni del treno, così superiori alla nostra, ci inducono in soggezione, ci sentiamo quasi indifesi e cerchiamo protezione al suo interno, come se tutto quell’acciaio fosse l’inarrestabile corazza di un guerriero lanciato all’assalto delle distanze che si oppongono al nostro futuro. Se poi in testa a tutto c’è una locomotiva a vapore allora il timore reverenziale raddoppia, perché una cosa è udire il mugolio dell’elettronica e dei campi magnetici dei motori, altra è sentire con le orecchie e con il corpo i poderosi sussulti dei pistoni, vedere gli sbuffi di vapore che sono i segnali di una potenza formidabile appena appena trattenuta, e annusare all’avvio il rovente fiato del drago, quando dal fumaiolo si alza una nuvola nera a ogni corsa della biella. Allora ci si sente perduti, nel tempo e nello spazio, perché tante generazioni che ci hanno preceduto hanno provato simili suggestioni, esperienze drammatiche come quelle di chi partiva per una guerra lontana, di chi lasciava la sua casa per cercare fortuna altrove, di chi si separava da ciò che gli è caro, di chi fuggiva da una realtà insopportabile o ne era cacciato, oppure eccitanti e fortunate, una villeggiatura, un ritorno, una scoperta, un lusso, una prima tappa di un viaggio avventuroso.
Vedete bene allora che il treno non è, almeno per me, solamente un prosaico mezzo di trasporto, è invece l’espressione iconica del viaggio, che sia di un’ora o di un giorno, e nel libro di Jaroslav Rudiš ho ritrovato un po’ di me, anche se non in forma così esasperata, e ho anche ricavato ispirazione per nuovi viaggi. Non vedo l’ora di tornare a Vienna salendo sul il treno Emona, con gli scompartimenti e la carrozza ristorante (una di quelle vere, come nei film). E chissà che non torni a Praga rinunciando al veloce e asettico Railjet in favore di un treno più lento su una tratta più lunga ma più suggestiva. Magari le mie sono solamente le fantasie infantili di un vecchio, niente di più ridicolo, ma non fanno del male a nessuno, anzi fanno bene al pianeta.
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