Le verità di Pinocchio
Diciottesima puntata
– Chi c’è, chi ha parlato? – chiese Pinocchio facendosi scudo col tronco e scrutando lo spiazzo erboso.
– Nessuno ha parlato, almeno come lo intendi tu, però se mi senti significa che non mi sbagliavo.
Nella radura non si vedeva anima viva, e in quello spazio libero sarebbe stato impossibile nascondersi, e per di più la voce era sembrata provenire da un punto indistinto, vicina e lontana allo stesso tempo.
– Insomma, dove sei? Fatti vedere, avanti! – gridò Pinocchio, sperando di mostrare più coraggio di quanto gli suggerivano le sue gambe che erano impazienti di farlo scappare.
– Ehi, non c’è bisogno di urlare. Se vuoi vedermi, guarda davanti al tuo naso.
Davanti al suo naso però non c’era che aria attorno alla scabra corteccia del pino, quindi, per quando assurdo potesse sembrare, era proprio quello a parlargli, e se si trattava di uno scherzo, era in quel frangente assai inopportuno. Al momento però non aveva altra scelta che dare corda a quel discorso incredibile, e se la volpe l’aveva condotto fin lì, forse era perché udisse proprio quella voce.
– Non sapevo che gli alberi parlassero.
– Ma dico, sei duro d’orecchi o di comprendonio? T’ho già spiegato che noi non parliamo.
– Però io ti sento…
– Eh già, purtroppo sì.
– Come sarebbe a dire?
– Le piante comunicano tra loro perché facciamo parte di un’unica famiglia, è come quando tu parli da solo nella tua testolina.
Con la pazienza di chi è uso misurare il tempo in stagioni e non in ore e minuti, l’albero spiegò a Pinocchio come il suo mondo fosse diverso da quello degli animali, ma non per questo più silenzioso. Ogni tipo di pianta aveva la sua voce, la quale poteva essere udita da quelle simili che condividevano lo stesso territorio, e non solo le parole passavano, ma anche le sensazioni e i ricordi. Gli uomini erano ovviamente sordi a quei suoni e a quei messaggi, perciò nulla sapevano delle loro lotte che erano costellate da grida di furore, di dolore, di euforia, in guerre lentissime nelle quali non si facevano prigionieri, costellate da vittorie e sconfitte che si susseguivano a un ritmo incessante per un raggio di sole, per una goccia d’acqua, per un refolo di brezza.
– L’uomo non conosce i lamenti sempre più flebili dell’albero soffocato dall’edera, non percepisce la disperazione delle piante quando arriva l’alianto, non si rende conto dei duelli feroci dove le armi sono i rami che decidono della vita e della morte dei contendenti.
– Però io riesco a sentirti – disse Pinocchio, finalmente convinto da quella inaspettata realtà.
– Sì, perché io e te ci conosciamo.
– In che senso?
– Nell’unico senso possibile, quello che tutti gli alberi che che avevano radici qui si capivano, e se ora tu percepisci la mia voce è segno che prima di essere un ragazzino facevi parte di questo boschetto di pini.
– Forse hai ragione. Per un certo tempo sono stato un burattino di legno, ma non sapevo di essere nato qui. Vedi, nei miei primi ricordi c’è qualcuno che sta dando alcuni colpi d’accetta, ma quando grido che mi sta facendo male quel bel tomo si spaventa a tal punto che decide di liberarsi di me regalandomi a Geppetto, il mio babbo, che poi fu la prima persona che vidi.
– Ma quelle non furono le prime persone con cui hai avuto a che fare – disse il pino con un tono mesto nella voce.
– No?
– No, ormai dovresti averlo capito. Fino a qualche stagione fa qui si stava bene, ognuno di noi aveva il suo spazio, la sua acqua, la sua luce, e tu eri un giovane pino che s’affacciava alla vita. Un mattino d’inverno sentimmo arrivare degli uomini, molti uomini, e dei carri. Sappi che, pur non possedendo occhi e orecchie, percepiamo le vibrazioni, il calore, il vento, e persino il contatto leggero d’una mano che sfiora la corteccia. La preoccupazione per quell’evento inconsueto si trasformò presto in sofferenza e paura. Uno per uno tagliarono tutti i pini, tranne me. Probabilmente a causa della mia scomoda posizione e dell’aspetto malaticcio decisero di che non valevo la loro fatica, non ne avrebbero ricavato un granché, perciò mi lasciarono qui.
– Dev’essere stato terribile – disse Pinocchio.
– Più di quanto pensi, e anche se non te lo ricordi sento che devi aver provato da poco qualcosa di simile.
– È vero. M’ero appena seduto su un ceppo e sono quasi svenuto dal dolore.
– Hai percepito solamente la memoria di quello strazio, ed eri in grado di farlo perché un tempo hai fatto parte di questa famiglia.
– Ma tu non sei stato tagliato, perciò non hai sofferto – gli disse Pinocchio, cercando così di smorzare la tristezza che quell’albero gli trasmetteva.
– Ora non più, ma in quei terribili giorni tutti noi abbiamo provato il dolore di ogni singolo albero che veniva abbattuto, e anche quando rimasi solo continuai a soffrire perché le nostre radici si sfioravano, e attraverso quelle passava la memoria di tutto il patimento, dal primo dente di sega alla disperazione della caduta. Poi finalmente le radici morirono, il contatto s’interruppe e trovai un po’ di pace.
Pinocchio era rimasto sconvolto da quella verità. Aveva sempre considerato il legno come un materiale da lavorare o da bruciare, come tutti del resto, e mai aveva sospettato che fossero parte di qualcosa che soffriva. Certo, quando mangiava del pollo era ben cosciente che prima c’era stato un animale vivo, al quale era stato tirato il collo, che era stato bollito, spennato, sbudellato e infine cucinato, ma si trattava di un essere stupido, mentre ora si trovava di fronte all’idea di una comunità di esseri viventi in grado di concepire il linguaggio, la memoria, la personalità, la loro coscienza di essere prima vivi e poi morti. Però quel quadro sconvolgente presentava ancora un punto oscuro che lo riguardava.
– Com’è che anch’io non sono morto quel giorno? Anche se non ricordo nulla, sono pur qui a sentirti.
– T’ha salvato lo spirito vitale.
– Spiegati meglio.
– Eri un pino molto giovane, pieno di energia e voglia di crescere. È probabile che un pezzo del tronco sia finito molto presto tra le mani di qualcuno che voleva lavorare il legno, ma avevi conservato ancora la forza della vita tra le tue fibre, e quando t’hanno regalato una forma di burattino quella forza ha trovato la maniera di esprimersi. Non chiedermi come, io sono solamente un pino che del mondo sa solamente quello che gli passa accanto.
– Quindi io sarei ancora un burattino di legno? – chiese Pinocchio, tra l’offeso e lo spaventato.
– Oh no, sei un ragazzino che un tempo provò cosa significa far parte di un mondo molto più antico dell’uomo, e che ora saprà vedere la realtà delle cose con occhi nuovi, aperti alla verità di una vita in armonia col proprio destino e col mondo.
– Dici che potrei farlo veramente? E come?
– Questo non lo so, sta a te usare ciò che hai e ciò che sai per farti un’idea precisa.
– Va bene, ci proverò, anche se forse nella mia situazione non m’aiuterà molto.
– Ah, la tua situazione, una faccenda complicata – fece il pino.
– E tu, come lo sai? Non te ne ho parlato – disse Pinocchio, stupito che un albero nato e cresciuto su quel colle potesse avere notizie sulle sue peripezie. Di certo non era andato in paese a informarsi.
– Caro ragazzo, non serve che tu parli. Ricordi quando ti sei seduto sul ceppo? Il solo contatto t’ha trasmesso quelle sensazioni terribili. Con me è lo stesso. Quando m’hai toccato ho avvertito la tua angoscia, e dietro a quella tutti i fatti che l’avevano scatenata. Sono addolorato per te e per il tuo babbo, e anche se è un falegname non provo alcun malanimo per lui. Semplicemente non sa, quindi è scusabile.
– Però non puoi aiutarmi.
– Invece sì, abbracciami.
Pinocchio restò un attimo perplesso da quell’invito inconsueto per un albero, poi avvolse con le braccia il tronco finché le mani si toccarono dietro a quello. Sul momento avvertì solamente la scabrosità della corteccia dalla quale si staccò qualche scaglia. Era pino abbastanza vecchio, ne aveva visti di inverni, forse era vecchio più di Geppetto, e l’età aveva portato saggezza e pazienza.
D’un tratto Pinocchio si sentì leggero, non nel corpo ma nell’animo, come se tutte le sue paure, i suoi affanni e le sue sofferenze fossero state assorbite dal legno, e provò serenità, sollievo, calma, speranza e nuova energia. Poi, senza che ne fosse accorto, si ritrovò a braccia spalancate di fronte al pino.
– Cos’è successo? – chiese Pinocchio, un po’ sconvolto da quelle sensazioni, incerto se fossero state vere o solamente sognate.
– T’ho regalato i miei ricordi più belli, che poi erano quelli di tutti i pini che vivevano qui.
– È stato bellissimo, è stato come la carezza di una… di una…
– Di una mamma – concluse l’albero. – Quella che in fin dei conti t’è sempre mancata, perché il mondo degli uomini t’ha strappato da lei con la violenza dell’ascia.
– Così sarebbe stata la mia mamma?
– Così è stata e ancora è, per te, per noi, per tutti, ma gli uomini hanno dimenticato, sono diventati esseri avidi e sconsiderati, con un cuore di pietra. Forse anche il tuo babbo era così, ma ora che sai potresti svegliarlo da quel sonno da burattino di carne, forse non è troppo tardi per lui. Vai Pinocchio, vai, non c’è molto tempo.
– E dove dovrei andare? – chiese lui. – Non ho idea da che parte stia la mia casa.
– Ricordo che quando finalmente se ne andarono, gli uomini si diressero dalla parte opposta del sole, quindi ora la direzione verso un abitato ce l’hai, e poi c’è da credere che per arrivarci non avranno scelto un percorso lunghissimo, al massimo un viaggio di mezza giornata, quindi dovresti farcela prima di sera.
– Beh, allora grazie signor pino, spero di rivederla, qui ovviamente, non in paese.
– Ciao ragazzo, e buona fortuna.
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