A tutta birra

Ve lo devo proprio dire: io bevo.
– Bella scoperta – affermerà più di qualcuno, in considerazione del tenore generalmente stralunato dei testi di questo blog, e in una certa misura potrebbe pure avere ragione.
Vorrei però definire meglio qual è il mio livello di affezione verso l’alcol in rapporto a quanto mi circonda, nel senso che ho l’impressione che tutti bevano, e noto che le uniche varianti riguardano, l’approccio, la sostanza, l’occasione, il metodo, la presentazione e la frequenza.
Mi spiego meglio.
Se avete lo stomaco forte (in senso metaforico, s’intende) dovreste riuscire a resistere a qualche ciclo di pubblicità televisiva, e allora potreste notare come vengano allegramente proposti dei personaggi che altrove verrebbero tranquillamente etichettati come alcolisti, e viene reiterato l’invito a bere alcolici per scatenare l’allegria, per godersi la vita al “top”. Buttano giù di tutto, dal prosecchino alla grappetta, dall’aperitivo al digestivo, dal cartone al millesimato, sempre splendidi, sempre sorridenti, sempre appagati. Ma non sono degli alcolizzati, no, il pubblico non deve percepirli come tali perché bere qualche manhattan in un bar sfavillante non è come bere un paio di bicchieri di vino in una fosca osteria di periferia, perché il whisky dentro a un bicchiere di cristallo largo una spanna è come uno smoking, mentre il distillato di susini che sta in fondo a un bicchierino leggermente opaco appare povero al confronto, una rustica gabbana, perché sullo schermo tutti bevono per stare meglio, quando, in realtà, troppo spesso capita di bere per stare meno peggio.
Sarà ormai chiaro che non m’identifico in quell’eletta congrega di modelli televisivi, e nemmeno sono tipo da raffinati cocktail o etichette altisonanti, diciamo che bado più alla sostanza, seppur liquida. Mi va però di puntualizzare che non sono insensibile alle sottili differenze organolettiche di quanto mi capita di assaggiare, e ciò in virtù di un’ottima sensibilità al flavour e all’aroma, cresciuta spontaneamente e mantenuta con ostinazione a volte esagerata. Certo, il fatto di non essere un fumatore aiuta, come pure fa il suo la possibilità di procacciarsi dei prodotti naturali, con sapori mai alterati da processi di produzione, trasporto e conservazione tipicamente industriali, e la prossimità con i piccoli produttori locali che si mantengono fedeli alla tradizione e alla qualità è di grande aiuto, però non si creda che l’abitudine mi vieti di apprezzare ciò che incontro al di fuori della mia “comfort zone”. In più occasioni ho passato dei bei momenti in compagnia di vini toscani e alsaziani, birre belghe e irlandesi, liquori francesi e boemi, senza però voler fare dei confronti che sanno tanto di provinciale, bensì cercando di trovare in ogni profumo, in ogni riflesso, in ogni sorso una parte della cultura che aveva dato forma apprezzabile a quel miracolo che stavo sorseggiando.
Però, eh sì, c’è un però, è proprio la cultura che mi contraddistingue a determinare le mie scelte. Mettetemi di fronte a una bottiglia di Brunello di Montalcino e una di Refosco dal peduncolo verde (verde, non rosso!) e sceglierò il Refosco. Offritemi un bicchierino di cognac e uno di slivovitz, e state sicuri che brinderò con quel distillato di prugna. Perché di quel vino ho visto i grappoli d’uva che maturavano in attesa della vespa che ne decreti il momento della vendemmia, ho visto il sudore del contadino e la sua giusta soddisfazione nel farsene vanto come se fosse un figlio, ho visto il mare che offre alla terra quel tanto di sale che la vigna suggerà avidamente, percependo infine la gioia di bere un bicchiere assieme a persone che condividono gli stessi gusti semplici e la consolazione di non essere sempre afflitto dal domani. E preferisco lo slivovitz perché la Dordogna è lontana, quasi mitologica, mentre in agosto posso passeggiare tra i susini, quando i rami quasi si piegano sotto al peso di quei frutti violacei, e magari in settembre passare accanto ai prugnoli, con i loro piccoli frutti che si pigiano attorno agli esili rami di quegli arbusti, e so che da lì, da quelle piante che hanno visto unicamente il sole e la pioggia verrà un liquore ambrato che non ha altre pretese che quella di ricordarci in inverno i sapori dell’estate.
Perciò è difficile incontrarmi in un bar con un drink multicolore in mano, più facile in un’osmiza, in compagnia di amici o di avventori conosciuti al momento, ad alzare con viva e vibrante soddisfazione più di qualche bicchiere di vino (bicchiere, non calice!), e lì, invece di sorrisetti educati e stucchevoli complimenti, potrei regalarvi qualche storia bizzarra o un grassa barzelletta.
Ci si potrebbe giustamente chiedere dove diavolo io voglia andare a parare con questa tiritera, peraltro non troppo originale, e ora c’arrivo.
Vi parlerò della birra, della quale faccio un uso condiscendente ma non smodato.
Qual è l’ingrediente principale della birra? L’orzo? No. Il luppolo? Nemmeno. È l’acqua. Bella scoperta, direte voi, ma per molti sarà veramente una scoperta.
Se avete buona vista (in caso contrario inforcate degli occhiali all’uopo) andate un po’ a leggere cosa ci sta scritto dietro o accanto all’illustre marca della birra, troverete lo stabilimento di produzione. Fatto? Bene. Ora andate su GoogleMaps e verificate dove sono effettivamente situati gli stabilimenti di produzione. Fatto? Bene. Suppongo che vi sia passata la voglia di bere quella birra e stiate meditando di buttarla giù per lo scarico del lavabo. Perché la birra è acqua, e lì l’acqua o è poca o è assolutamente inutilizzabile. Allora, volendo mantenere costanti il sapore della birra e i volumi di produzione, viene utilizzata dell’acqua “purificata” industrialmente, un po’ come quella che si utilizza per il ferro da stiro, ma in quantità decisamente superiori. Che arrivi con le autobotti o da un conduttura, quell’acqua è inutilizzabile così com’è, perciò vengono aggiunti dei sali in quantità predefinite e costanti, come si fa nell’industria alimentare con l’aggiunta degli aromi più o meno artificiali per dare un sapore seducente a dei prodotti altrimenti insulsi. Così succede che la birra che comprate nel supermercato di casa vostra avrà l’identico sapore anche a Parigi, a Madrid, a Belgrado, senza eccezioni. Del resto il consumatore medio non ama le sorprese per i prodotti che già conosce, anche se quelle fossero migliorative.
Allora, se in buona sostanza le birre “commerciali” si somigliano un po’ tutte, come agire per farle emergere e preferire? Nessun problema, a quello ci pensa la pubblicità.
Come sempre, a me piace portare degli esempi per spiegarmi meglio.
Non so se ricordate quello spot (invero carino) della birra Kozel, durante il quale i caricatori del camion perdono il controllo di una botte e quella comincia a rotolare per le viuzze del borgo, fino a venire miracolosamente salvata. Lo spettatore potrebbe presumere che quella birra sia prodotta quasi artigianalmente in una pittoresca cittadella di ambientazione molto antica (XV-XVI secolo), grazie a delle maestranze affezionate e a dei prodotti di origine boema più che naturali, o come dicono loro: “La birra col villaggio dentro”.
Ebbene, lo spot è girato a Kutná Hora, una location effettivamente suggestiva che ho avuto modo di visitare, ma che si trova a più di cinquanta chilometri da Velké Popovice, una cittadina che di antico vanta ben poco, e dove si trova effettivamente lo stabilimento di produzione di proprietà della Asahi che copre circa un migliaio di metri quadrati coperti, quindi ben distante dai punti di vista geografico e culturale (perché la birra è anche cultura).
A questo punto mi va di spargere il sale sulla ferita, per la precisione su quella di chi ha bevuto cotale birra oppure ha intenzione di assaggiarla con la convinzione di assaporare un prodotto della Boemia, e che sarebbe in grado di sopportare anche la rivelazione di questo “innocente” imbroglio. Ebbene, quella che che vi hanno versato nel bicchiere era prodotta in Italia, e per la precisione dalla Peroni, quindi di boemo ha unicamente l’etichetta altisonante e il messaggio pubblicitario, ovvero, come dice Robert De Niro in un famosissimo film, “solo chiacchiere e distintivo”.
Badate bene che lo stesso discorso vale per un’infinità di birre che trovate al supermercato e al bancone di un bar, come, per esempio quelle sedicenti tarantine o messinesi, fino ad arrivare a marchi più blasonati, un nome per tutti, la scozzese Tennent’s prodotta invece a Brema, probabilmente negli stessi stabilimenti dove viene realizzata la Beck’s.
Allora torno a ripetermi: io bevo. Però lo faccio con convinzione e competenza, per scelta e non per necessità, nell’occasione e nella misura, in compagnia e in allegria, senza illusioni e senza rimpianti, più vicino alla memoria e più lontano dalle mode, e per quei momenti di gioia terrena m’affido a ciò che conosco meglio, l’origine, la materia, il percorso e la storia che sempre si dovrebbero trovare dentro a un bicchiere di birra o di vino. Se volete, se potete, cercate anche voi di non farvi prendere in giro da chi fa leva sulla pigrizia del consumatore e sulle chimere della pubblicità per spianare la strada a prodotti che cancellano ogni originalità, per offrire sensazioni sempre uguali, prevedibili, accettabili, facili, ottimali solamente per chi vende.
Per quel che mi riguarda cercherò di restare fedele alle birre artigianali, mai perfette e mai famose, ai vini sbilenchi e irrisolti della mia terra, e alla gente che si danna l’anima per offrirmi un sorso di bellezza.

P.S. Comunque la birra Kozel scura alla spina non è male, ovviamente in Boemia, non qui. La migliore a Praga la potete trovare da “U Černého vola”, in Loretánské náměstí.
Ahoj

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