Questa storia ve la devo proprio raccontare, che più ci penso e meno sono certo d’aver capito tutto.
Asiago è un bel posto, però perde un po’ del suo fascino quando sei costretto a scapicollarti per rispettare gli appuntamenti di lavoro, soprattutto se venendo su hai forato nei pressi di Thiene, e infine ti ritrovi nel pomeriggio davanti all’orario degli autobus diretti a valle. Avrei dovuto attendere lì quasi due ore, ma, per fortuna, il gommista chiudeva alle sei e mezza, perciò prevedevo di farcela a ritirare l’automobile in tempo. Dovevo essere rimasto lì in piedi per un bel po’, intento in calcoli, congetture, recriminazioni e altri pensieri, giacché qualcuno decise di scuotermi da quella catalessi
– Guardi che comunque il bus non arriva prima se manda a memoria l’orario delle partenze.
Volsi lo sguardo verso quella voce con l’intenzione di ribattere in modo poco cordiale a tale battuta di spirito, ma un sorriso disarmante smontò la mia stizza come farebbe un giro d’aria a un soufflé. Non sapendo come rispondere rimasi in silenzio, il che fu interpretato da quella persona come un mio imbarazzo.
– Perdoni la mia impertinenza, è l’età. I vecchi, o rimangono in silenzio o parlano troppo, e spesso a sproposito.
A pochi passi da me, sotto una sorta di tettoia d’un piccolo edificio in pietra accanto alla fermata dell’autobus c’era un’essenziale panchina, e seduto su quella un uomo abbastanza anziano – giudicai d’una settantina d’anni almeno – con un bel cappotto lungo di cammello, la testa coperta da un pratico cappello di feltro a tesa larga.
Giusto per mantenere un certo tono d’urbanità gli chiesi se anche lui stesse aspettando l’autobus, ma quello rispose che se ne stava lì per un motivo più che sentimentale, per riandare con la memoria ai bei tempi della sua sua fanciullezza.
– Eh, caro giovanotto, lei ancora non se ne rende conto, sappia che la vita è come un elastico, più si allunga e più vorrebbe tornare indietro.
A quel punto la curiosità prese il sopravvento sulle mie riflessioni materialistiche, perciò gli feci osservare che, con tutti i suggestivi panorami che quella località offriva, si sarebbe potuto trovare di meglio d’una strada asfaltata, una recinzione in cemento e uno sfondo di palazzine.
– Lei ha ragione, ovviamente, però qui, tanti anni fa, c’arrivava il treno, e io con lui.
– Il treno?
– Certamente. Su, faccia uno sforzo, guardi alla sua sinistra. Secondo lei, perché quel locale si chiamerebbe “Bar vecchia stazione”? Andiamo, le offro qualcosa, tanto c’è tempo. Va bene che è quasi primavera, ma restando lì sul freddo asfalto rischia di buscarsi un bel raffreddore.
Il vecchio mi raggiunse e insieme arrivammo a quel locale che distava poco più d’una decina di metri, quindi c’accomodammo all’aperto, in pieno sole, su delle poltroncine di plastica abbastanza confortevoli. Tutto sommato, non era male. Io chiesi un caffè americano, bello caldo specificai, e lui un macchiatone. Aspettammo in silenzio che portassero al tavolo le nostre ordinazioni, e solamente quando l’aroma di caffè addolcì il mio umore m’arrischiai a chiedergli come mai quel treno fosse tanto importante. Da come s’accese lo sguardo del mio interlocutore ebbi l’impressione che non stesse aspettando niente di meglio di quella domanda, ma non fu un racconto, fu una conferenza.
A quanto mi disse, prima dell’arrivo del treno ci volevano sei ore di carrozza a cavalli per raggiungere Asiago da Schio, senza contare il fatto che anche quella era solamente per i pochi che potevano permettersela, oppure salire a piedi tutti i 4444 scalini della Calà del Sasso da Valstagna. La ferrovia era arrivata nella Val d’Astico a fine ‘800 grazie all’iniziativa del senatore Rossi, con l’intento di collegare con mezzi più efficienti gli stabilimenti che producevano lana e carta, però arrivare fino all’Altopiano dei Sette Comuni risultava problematico a causa del dislivello da superare. Messo da parte ogni sentimento nazionalistico, ci si rivolse allora all’antico nemico austro–asburgico, cioè a chi di ferrovie di montagna aveva più esperienza, e fu appunto un ingegnere di Graz a indicare il percorso e le tecnologie da adottare, ovvero un binario a scartamento ridotto con un tratto a cremagliera, l’unico sistema in grado di superare la pendenza del 125 per mille. Però passarono ben vent’anni prima che venissero raccolti i fondi per iniziare la costruzione dell’opera, il cui progetto finale ricalcava abbastanza fedelmente quello dell’ingegnere austriaco.
Io ascoltavo il racconto di Paride – così aveva detto di chiamarsi – con molto interesse, era parte d’una storia di quei luoghi a me ignota, ma ciò che mi fece strabiliare fu il fatto che venne utilizzato lo stesso materiale rotabile dal giorno dell’inaugurazione, il 10 febbraio del 1910, fino alla cessazione del servizio, nel 1958, perciò le locotender, di produzione svizzera, operarono senza sostanziali modifiche per quasi mezzo secolo, come pure le carrozze passeggeri.
Da come me ne parlava era evidente che il mio interlocutore, pur avendo viaggiato con quel treno solamente da bambino, ricordava ancora bene le emozioni che il percorso da Rocchette ad Asiago sapeva regalare.
Si partiva di buon mattino, ed era difficile non provare un leggero brivido quando, usciti da una corta galleria, si spalancava davanti agli occhi il vuoto di 70 metri tra l’ardito e apparentemente esile ponte metallico e il torrente Astico che scorreva giù in fondo. Nemmeno cinque minuti dopo iniziava il tratto a cremagliera, e il procedere della vaporiera diventava affaticato e rumoroso. Da lì fino a Campiello il treno viaggiava a non più di dieci chilometri orari, arrivando al termine della Val Canaglia, – il nome dice tutto – dove la cremagliera lasciava il posto al binario normale, ma quei tre quarti d’ora spesi per raggiungere il colmo assomigliavano a un’arrampicata in montagna, dato che si partiva dai 300 metri e s’arrivava ai 1000 metri, per di più su un percorso tortuoso e spesso scavato nella roccia.
Il convoglio, oltre alla locotender, consisteva in un paio di carrozze soltanto, con l’aggiunta occasionale d’una carrozza postale o un vagone merci, perciò erano vicinissime alla vaporiera. A quel punto del racconto fu palese che non m’era chiaro dove stesse il problema, pertanto Paride ebbe la bontà di spiegarmi che non era infrequente che del fumo entrasse attraverso qualche finestrino aperto, in discesa perché la locotender viaggiava in testa al convoglio in retromarcia, ma soprattutto salendo quando s’imboccavano le gallerie della Barricata e della Barricatella. Il capotreno allora ricordava per tempo ai passeggeri di chiudere bene i finestrini, altrimenti fumo e falise avrebbero invaso la carrozza.
– Falise? – chiesi.
– Sì, non so come si chiamino in italiano. Sono piccoli pezzi di carbone ancora infuocato che escono dal fumaiolo. Se ti cascano sul vestito te lo bucano, però se te ne capita una in un occhio son dolori…
Da Campiello il panorama cambiava, l’altopiano s’apriva, e su quel pianoro al giovane Paride sembrava che il treno volasse fino ad Asiago, arrivandoci quasi due ore e mezzo dopo la partenza da Rocchette.
A quel punto il vecchio fece una pausa, fissandomi come se volesse valutare il mio grado d’attenzione. Ritengo che allora superai l’esame, in quanto decise di aggiungere un aneddoto che, a detta di lui, pochi conoscevano, e io ve lo riporto.
Nel ‘26 prese servizio sulla Roana – con tale nome era stata battezzata quella locotender – un giovane fuochista di Venezia proveniente da uno di quei sestieri popolari dove si mischiavano le genti di tutto l’Adriatico, e si sa che dalla fusione nasce il meglio. Infatti era alto, col fisico scolpito e una zazzera riccioluta di capelli neri come la pece: bello come un dio greco.
All’epoca le signore benestanti della valle andavano in villeggiatura in Altopiano, “ai freschi” in estate, a sciare, chi sapeva, d’inverno. Si può ben immaginare che effetto facesse a quelle mogli di mariti pigri e distratti, sempre impegnati in città col lavoro, quel baldo giovane quando scendeva dalla locotender a torso nudo, lucido di sudore, e talvolta con una sorta di maschera nera attorno agli occhi a mo’ di Zorro. Infatti era normale che alla Barricatella i fuochisti si riparassero naso e bocca per non essere intossicati dal fumo, specialmente quando al posto del Cardiff dovevano usare le autarchiche mattonelle, lasciando scoperti solo gli occhi, col risultato conseguente.
Il furbastro s’era ben accorto del turbamento che provocava e, con discrezione, capitava che “accompagnasse” qualche gentildonna al piano superiore del fabbricato viaggiatori di Asiago, sempre coperto dalla benevole omertà dei colleghi. Qualcuno però fece la spia, più per invidia che per moralità, e scoppiò lo scandalo.
Il podestà di Schio interrogò il fuochista e, oltre a una candida confessione, ottenne anche dei nomi, troppi nomi, circa le signore che avevano ceduto al fascino del bel giovane. Si decise allora di non procedere legalmente, sarebbe stato infamante per alcune famiglie molto in vista, però venne ordinato alla Società Veneta di provvedere al trasferimento del fuochista, il quale venne ricollocato in uno scalo del Friuli, alle manovre, con l’obbligo di tacere, pena il confino.
Saputo il castigo, i suoi colleghi di Asiago decisero, per proletaria vendetta, di mettere in atto una bizzarra forma di solidarietà col giovane veneziano. Di notte, presero nell’officina di Asiago uno spezzone di putrella d’acciaio, la modellarono e la rivettarono al centro del fumaiolo. Il risultato fu che, quando al mattino il treno scese a Rocchette, i passeggeri in partenza videro uscire dalla locotender due pennacchi di fumo ben separati. Paride mi spiegò che, a quei tempi, i valligiani non è che fossero molto consapevoli di quanto poteva esistere oltre l’orizzonte, perciò l’animale più grosso che conoscevano era la vacca, e ogni locomotiva, ancor più grande di quella bestia, però nera, era nota come “vaca mora”. Il messaggio era evidente, la locotender era la “vaca”, e quelle due colonne di fumo raffiguravano un irridente appellativo verso tutti i cornificati che mandavano le mogli in vacanza ad Asiago. La faccenda andò avanti per un bel po’, fino a tutto il ‘27, poi qualcuno molto in alto ordinò che tale sberleffo venisse a cessare.
– Bella storia – dissi. – Mai sentita prima.
– Me la narrò mia nonna materna, quando giudicò che fossi abbastanza grande per capire.
– Andando con lei in treno? – chiesi.
– No, il treno non c’era già più, e inoltre non ricordo che ci sia mai salita. Anche il nonno, che s’era fatto una bella casa in quello che un tempo si chiamava Viale Regina, non gradiva; lui ci portava sempre su in automobile, tanto che una sera d’inverno ci restò, uscendo di strada su un tornante del Costo. Quella strada era velenosa come una vipera, una vera fabbrica di vedove e orfani. Che io sappia, col treno invece non è mai morto nessuno, se si esclude una cantoniera che, scivolando sul ghiaccio, finì colle gambe sotto le ruote, e il povero ingegner Letter, colui che la ferrovia l’aveva realizzata. Come Mosè separò le acque per il popolo d’Israele, ma morì in vista della Terra Promessa, così il Letter separò le montagne per il popolo dell’Altopiano, ma l’emozione lo uccise il giorno precedente all’inaugurazione.
– Che sfortuna – commentai.
– Eh già. Io però ci sono stato sul treno, con mia madre, fin quasi ai dieci anni, e mi ricordo ancora i ragazzini che, approfittando della bassa velocità, salivano sui predellini delle carrozze finché non arrivava “el sbusabiglieti” a scacciarli.
Io rimasi in silenzio, indeciso se credere o meno a quella storia d’altri tempi. Avrei voluto saperne di più, ma in quel momento una massa rossa e bianca fece la sua apparizione.
– Toh, è appena arrivato il suo autobus, in ritardo come al solito. Corra, altrimenti quello riparte e la lascia a terra.
L’eventualità non m’attirava, perciò m’alzai e lo ringraziai per il suo tempo e per il caffè. Paride fece solo un cenno d’assenso e si limitò ad augurarmi buon viaggio, non senza, come s’usava un tempo, togliersi cortesemente il cappello, scoprendo i suoi folti ricci sale e pepe. E così, con quell’ultima visione sibillina eppure rivelatoria, io salii sull’autobus per Thiene.
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Questa storia non la conoscevo,però conoscendo bene i posti da te descritti ,la storia diventa come una favola ai nostri giorni ,l’Altopiano di Asiago lo conosco bene ,fatta la strada vecchia anche con il rampichino…..anni fa ,molti anni fa ,ero giovane e la vita era libera dopo il lavoro ,bei ricordi ,grazie x aver scritto questo racconto che porta indietro nel tempo che non ce più.
Durante la raccolta dei dati storici di quella ferrovia, ho scoperto che nel 1885 il treno arrivò anche a Torrebelvicino, presso il lanificio Rossi. La linea fu poi soppressa nel 1925.
Ciao
🙂