Frontieri

Come al solito viene da pensare a un refuso, a una vocale abusiva e dispettosa, quando invece si tratta di uno dei miei soliti e bizzarri innesti di due parole diverse.
Questo post è dedicato a chi vede nell’Europa, nella sua valuta comune e negli accordi di Schengen l’origine dei mali italici, e forse di tutti i mali.
Immagino che per la maggior parte dei frequentatori di questo blog la parola “frontiera” abbia un significato astratto, metaforico, traslato, oltre che, ovviamente, storico e geografico. La frontiera viene associata a un confine, e questo, pur essendo una semplice linea, ha inciso in maniera decisiva, troppo spesso drammatica, nelle umane vicende.
Sappiamo bene che le peggiori sciagure sono avvenute e ancora avvengono sempre a seguito in una violazione del confine, a prescindere se essa sia giustificata o meno, e i contrapposti intenti di chi lo difende e chi lo calpesta portano a tutte le esiziali conseguenze di un conflitto. Però la frontiera ha talvolta assunto anche dei connotati più romantici, seppur altrettanto pericolosi per chi l’attraversava. In fondo ogni essere umano ha davanti a sé una frontiera, tutti i giorni, tutto il giorno. Si chiama orizzonte.
Che si trovi dove il cielo si sposa col mare, oppure sulla creste di una catena montuosa, o anche nella volta stellata, la frontiera costituisce un richiamo irresistibile per tutti gli avventurosi che per millenni hanno solcato il pianeta, arrivando persino a lasciarlo per un po’ di tempo.
Pur essendo apparentati, confine e frontiera non sono sinonimi e perciò non sono intercambiabili. Il confine in realtà non esiste, è una linea, una figura unidimensionale utilizzabile solo a scopo matematico, legale, nazionale, descrittivo e morale. Un confine circoscrive esattamente un territorio e lo separa dagli altri, un confine delimita una proprietà, un accesso, fissa una conditio sine qua non, ma ci aiuta anche a distinguere e definire ciò che è accettabile e ciò che non lo è o non dovrebbe esserlo. Guai però a cercarlo come se fosse tangibile e immutabile, potrebbe tradirvi, sfuggire come un’anguilla, trasformarsi in un’entità quantistica; eventi storici, movimenti economici, fatti accidentali, mutamenti, in meglio o in peggio, del comune sentire, evoluzione etica e bradisismi sociopolitici sono tutti agenti perturbatori in grado di spostare ogni confine, a volte quasi inavvertitamente e a volte con dolorosa furia.
La frontiera è invece qualcosa di avvertibile anche quand’è immateriale. Si tratta di uno spazio non precisamente definito sul quale si sovrappongono e si contaminano mondi diversi, a volte antitetici, una zona di incontri e di scontri, di scelte e ripensamenti, di speranze e delusioni, di tensioni e sfumature, qualcosa di simile, mi si passi il paragone scientifico, al muro di Bloch.
Vi starete chiedendo perché io abbia introdotto questo argomento all’apparenza così poco appassionante, e non potrei darvi torto in quanto per apprezzarne il peso dovreste trovarvi in alcune condizioni assai peculiari.
La prima riguarda l’età, ovvero la possibilità di assistere alla proiezione mentale di alcune clip riguardanti la propria vita, ciò che viene banalmente definita “memoria”, e in sessant’anni e passa di consapevolezza ne ho a disposizione di materiale girato.
La seconda è la collocazione, o se preferite un termine cinematografico la “location”. Ho sempre vissuto un un fazzoletto di terra dove le parole “confine” e “frontiera” hanno avuto una loro materialità, e ancora oggi sono agitate come spauracchio o icona da preti in tonaca o in grisaglia, con croci o bandiere.
La terza è la condizione culturale, la mia personale che stenta a riconoscersi nelle altre e men che meno in quella collettiva. Ciò è chiaramente dovuto a un mio difetto, quello di essere un non-figlio di una non-terra, perciò diffido di ogni etichetta che tenti di classificarmi e la contesto semplicemente palesando le mie contraddizioni.
Voi che vivete a Rovigo, ad Arezzo, ad Ancona, a Latina, a Parma, a Savona (tutte città citate a caso, intendiamoci), per vostra fortuna non avete esperienza di confini e frontiere, di isolamento e sospetto, di partenze e rimpianti, di contrabbando e mercato nero, di valuta forte e valuta debole, di parole ignote e controlli occhiuti, di orgoglio e supponenza, di vessilli e proclami, di cecità e ostinazione.
I miei se n’erano andati dall’Istria nel ‘54, abbandonando casa e campagne perché la Jugoslavia di Tito era poverissima, e il timore di rimanere bloccati un un paese che non garantiva una sopravvivenza dignitosa nemmeno a chi coltivava la terra era più forte di ogni altra considerazione, tanto più se dall’altra parte del confine si promettevano da anni mari e monti a chi sceglieva di lasciare la Jugoslavia.
Si sa come andò. Per la maggior parte di loro ci fu solamente un campo profughi, baracche torride d’estate e gelide d’inverno, poco lavoro e malpagato, tranne ovviamente che per i soliti raccomandati, ragion per cui moltissimi si trovarono costretti a prendere una nave per l’Australia e le Americhe.
Qualche anno dopo furono costruiti ex novo in Carso dei piccoli paesi da destinare agli esuli, collocati strategicamente per controbilanciare la popolazione slavofona lì presente da secoli, il che non favoriva di certo una serena convivenza. Comunque non si pensi che in città le cose andassero meglio. Gli “esuli” erano in genere guardati con sospetto, un po’ per il fatto di essere talvolta “poco urbani”, e un po’ per il solito discorso che accontentandosi di paghe misere rubavano il lavoro ai triestini. In buona sostanza avevano attraversato un confine per finire ghettizzati dentro un altro confine, in qualche caso ancora oggi insuperabile.
Del mio parentado io posso vantare tutto il campionario di collocazioni. C’è che s’è fermato a Trieste, chi è andato negli Stati Uniti, chi in Canada, chi in Australia, e c’è chi è rimasto a vivere nella “Zona B”, poi Jugoslavia e infine Slovenia, questi ultimi senza incontrare problemi di sorta voglio aggiungere.
Volendo mantenere i contatti con quel ramo della famiglia capitava spesso che si facesse loro visita, per un saluto e per procacciarsi qualche prodotto locale (dalla terra e dal mare). Erano gli acquisti a chilometro zero ante litteram.
Mi va di raccontarvi come funzionava nei primi anni ‘60.
Ore 7:30, lato sinistro del molo Stazione Marittima. Si attraversa uno stretto cancello e si entra in una sala con dei tavoli di legno chiaro. Dietro al primo è seduto un poliziotto che prende la “Prepustnica” di mia madre e ne controlla la validità, inoltre verifica che sia presente anche il mio nome (avevo otto anni). La prepustnica (pr. prepusniza) era un lasciapassare italo-jugoslavo valido per transitare tra la Zona A e la Zona B senza bisogno del passaporto per l’espatrio, e veniva concesso solo ai residenti.
Il passaggio successivo era il controllo doganale. Si metteva ogni bagaglio sulla seconda scrivania, quindi un uomo con la divisa più chiara di quello precedente gli dava un’occhiata distratta chiedendo se ci fosse all’interno qualcosa da dichiarare. Ogni tanto poteva capitare che facesse aprire borse e borsette, immagino giusto per rompere la monotonia. Se tutto andava bene allora si usciva di nuovo all’esterno, sul molo dove era attraccata la motonave diretta in Istria.
Allo sbarco ci aspettava un altro controllo, giusto ai piedi del molo, accanto a un piccolo edificio cubico aperto solo per l’occasione. C’era un solo tavolino, all’aperto, uno di quelli pieghevoli da osteria, e una seggiola della stessa fattura. Il tutto serviva a un poliziotto jugoslavo che apriva la prepustnica alla prima pagina disponibile e ci timbrava sopra la data di arrivo. Dato che quando pioveva non prendevamo la nave, non ho idea se quella operazione si svolgesse all’interno del casotto o se il tipo preferisse utilizzare un ombrello.
Come che sia, la timbratura era, per me, un processo affascinante. Usavano un modello di timbro autoinchiostrante, all’epoca poco diffuso, e si trattava di un marchingegno mastodontico in lucidissimo acciaio inossidabile. Era uno spettacolo osservare come la parte interna compisse una sorta di mezza capriola per poi calare rumorosamente sulla carta del documento. Tu-tump, ogni volta, con la forza di un maglio e la precisione di una ghigliottina.
Dopo quel passaggio si transitava di fronte a un suo collega della dogana, in piedi quello, forse perché contava di meno, forse perché così era più facile scrutare all’interno delle borse.
La formula era identica per ogni viaggiatore, “kaj prijavite?”, ovvero se ci fosse qualcosa da dichiarare, seguita da un’ispezione (invero sommaria) del modesto bagaglio, poi con un breve cenno con la testa dava il permesso di proseguire oltre.
Al ritorno la trafila quasi identica, nel senso che all’uscita dalla Jugoslavia non esisteva controllo doganale, ma solo quello documentale, giusto per verificare che non fossero stati superati i cinque giorni di permanenza in Zona B.
Altro discorso valeva per il controllo italiano, dove, oltre all’apposizione della data di rientro con un tradizionale timbretto di legno, si veniva sottoposti a un esame doganale abbastanza occhiuto.
Era teatro vero.
– Cosa dichiara?
– Niente.
– Come sarebbe a dire niente, e quelle borse?
– Xe le mie.
– Le posi sul tavolo e le apra.
– Eco qua.
– Ma… questa è carne, questo è strutto, e c’è del vino,e e dello zucchero, e poi… questo sarebbe niente?
– Ma non xe niente, un poco de spesa, e po’ la roba i me la regala i parenti, per i fioi…
– Ma anche la grappa?
– Sì, xe per far le frizioni, co se sta mal.
– E queste salsicce? Saranno almeno tre chili.
– Ma… mi no so, mi ghe go domanda’ qualche luganiga. Se vedi che i ga messo quacheduna de più, mi no go vardà. E comunque quel no xe vin, xe oio.
– Non so se posso far passare.
– E cossa la vol far, mandar a remengo una famea de operai per quatro luganighe?
– Va bene, va bene, per questa volta vada.
E così sempre.
Per amor di verità andrebbe detto che all’epoca era molto conveniente fare la spesa in Zona B. Carne, latte, farina, zucchero e altri generi di prima necessità costavano meno che in Italia, e per chi doveva fare i conti stretti per mantenere una famiglia con un solo stipendio da operaio era un bel salvagente. La convenienza era dovuta al cambio, nel senso che il Dinaro era più debole rispetto alla Lira, e perciò in percentuale il risparmio era sempre a due cifre.
Qualche anno dopo, tre o quattro se non ricordo male, capitò di fare una gitarella in Austria grazie alla fiammante utilitaria di fresco acquisto. Non ci inoltrammo che di una decina di chilometri oltre confine, in una piccola cittadina chiamata Lienz, e lì subimmo lo shock di trovarci proiettati dall’altra parte della barricata. Rispetto allo Scellino la nostra Liretta non valeva niente, perciò se si entrava in una Konditorei si poteva scegliere tra cappuccino (per i ragazzi aranciata) e pasticcino, ma tutti e due assieme no. Di andare a pranzo fuori poi neanche a parlarne… Comunque si trattò di un episodio isolato, in quanto dovettero passare vent’anni prima che mi ripresentassi in Austria, comunque sempre con l’angoscia di un cambio sfavorevolissimo che non invitava allo scialo, e in quel lungo periodo andare all’estero significò per me andare in Istria, e più che oltrepassare un confine si trattava di transitare attraverso una frontiera.
Tutto mutava, non solo la nazionalità, ma anche la lingua, o per meglio dire le lingue dato che lì si parlava lo sloveno e il serbo-croato, entrambe di ceppo slavo, quindi radicalmente diverse per vocabolario, sintassi e grammatica da quelle latine, oltre ovviamente all’originale istroveneto.
Ecco un’altra frontiera, quella che mi porto dietro, la mia parlata, differente dall’italiano e differente anche dal dialetto triestino, e sarebbe il veneto coloniale tipico del mio paese di origine. Così mi trovo quotidianamente ad attraversarla, anche in questo momento, però appena posso ritorno “a casa”, a quella lingua costruita e mantenuta dai nostri vecchi su una terra, per una terra, che non esiste più, una non-terra appunto della quale io sono un non-figlio essendo nato e cresciuto fuori dai suoi confini, però troppo vicino alla frontiera per non risultare arricchito dai suoi valori, paradossalmente assai poveri.
Ma torniamo agli anni della mia infanzia, quando, come ho già detto, tutto mutava, anche se all’epoca non possedevo gli strumenti per capire. Si lasciava una nazione a regime democratico (seppur vigilato dagli Stati Uniti) per entrare in un’altra assai meno liberale, una repubblica socialista dove il culto della personalità di Tito comportava inderogabilmente la presenza di un suo ritratto in ogni esercizio pubblico. Anche lì la frontiera si manifestava, nel senso che più ci si inoltrava verso sud e più si aveva a che fare un una certa rigidità politica e mentale, mentre nei pressi del confine si poteva assistere a una liberalità di consuetudini che forse trovava la sua ragion d’essere nei reciproci vantaggi economici che comportava. In estate, per soprammercato, mutava anche il tempo, nel senso che in Jugoslavia non vigeva l’ora legale, per cui era sempre un andare avanti e indietro con le lancette dell’orologio per adeguarsi agli orari in uso.
Il tenore di vita mutava, e lo si poteva facilmente notare dai beni di consumo a loro disposizione: scarsi, scadenti, livellati e poco interessanti. Mentre da noi il consumismo capitalista cominciava a fare proseliti entusiasti e vittime inconsapevoli, dall’altra parte l’economia era regolata da organizzazioni statali che permettevano unicamente la ridistribuzione di una parte degli utili alle maestranze, la famosa “autogestione”, e niente doveva essere in contraddizione con i principi socialisti, nemmeno la rarefatta iniziativa privata. L’importazione di beni dall’estero era limitata per non aggravare la situazione valutaria del Dinaro, e anche per non incrinare l’unità dello stato sociale con pericolose e allettanti sperequazioni dato che, nonostante i proclami di partito, c’era sempre chi stava peggio e chi stava meglio. Pur non sapendo ancora nulla di lavatrici, frigoriferi, cucine economiche, televisori e quant’altro, potevo ben distinguere l’austerità del parco di veicoli circolanti (e quale ragazzino non sa riconoscere le automobili?). Oltre alle Zastava 600 (una copia della Fiat 600) di color bianco crema o grigio topo, circolavano delle fumiganti Wartburg col motore a due tempi, delle Škoda, sempre a motore posteriore, e tavolta anche alcune vetture “occidentali” che avevano visto giorni migliori e che erano arrivate dall’estero chissà come.
Anche qui più che di confine si poteva ben parlare di un’altra frontiera, poiché le auto “occidentali”, e le definirei “accidentali”, erano maggiormente presenti sul litorale entro una ventina di chilometri dal confine, mentre oltrepassata quella si entrava nel regno del fil di ferro utilizzato per tenere assieme degli emeriti catorci, peraltro penalizzati dalla percorrenza di strade dal fondo assai dissestato.
Le ben note vicende politiche e l’unificazione monetaria hanno grandemente smussato quelle differenze economiche, e perlomeno in Slovenia sono stati compiuti notevoli passi avanti per avvicinarsi agli standard europei. Quella frontiera però rimane nella memoria di chi l’ha subita, persiste come disponibile testimonianza di una separazione artificiosa e come monito a non ripeterne gli errori, anche se purtroppo c’è ancora qualche esaltato che la rimpiange.
Una sorta di proprietà simmetrica vale anche anche per altre situazioni simili, nelle quali in origine partivo svantaggiato. Se oggi posso permettermi di visitare l’Europa settentrionale non è solo grazie alle tariffe low-cost dei mezzi di trasporto, ma anche e soprattutto grazie all’unificazione monetaria, una valuta europea che ha impedito al nostro paese gli sporchi giochini di svalutazione della lira per restare competitivi.
Per troppi anni l’industria nazionale, non riuscendo esportare per carenza di qualità, spingeva verso una politica svalutativa per offrire su mercati esteri prodotti appetibili sul fronte dei prezzi, una politica che però generava alti livelli di inflazione. I capitani d’industria incameravano marchi, sterline, scellini, fiorini, eccetera, e spesso li seppellivano in qualche banca svizzera, mentre le maestranze venivano pagate in lire ed erano costrette ad affidarsi alla scala mobile per resistere all’inflazione causata dalla svalutazione. Va da sé che ciò comportava una certa difficoltà nell’acquisto di oggetti non prodotti in Italia, una sorta di dazio non dichiarato sui prodotti esteri.
Oggi, per fortuna, anche questa frontiera è sparita, anche se alla libertà di scelta è subentrata l’incapacità di valutazione, e troppo spesso il consumatore si arrende alle sirene del prezzo della paccottiglia cinese.
Toh, per una frontiera che va ecco una che viene, quella tra chi seleziona i suoi possibili acquisti in base alla qualità e chi ama il consumismo low-cost made in China. Lascio a voi indovinare in quale sparuto schieramento io mi collochi. Si tratta di una frontiera ideologica che si erge sulla memoria, ovvero su come un tempo si potesse vivere molto meglio con molto meno, su quante piccole attività manuali esistevano un tempo, realtà locali che provvedevano alle nostre esigenze modeste ma consapevoli, sull’originale che è stato spodestato dal moderno, sul romantico rimpianto di un’altra frontiera ormai cancellata, quella che un tempo separava il desiderio dalla sua soddisfazione, mai immediata, mai facile, mai insignificante.
Ma mi sto perdendo, ormai nemmeno ricordo più dove volessi andare a parare.
Quando ripenso alla mia vita non posso fare a meno di evocare i fantasmi delle frontiere di ieri, ombre che un tempo incupivano i luoghi e gli animi, e oggi ombre ormai impercettibili in un mondo fin troppo illuminato. Però in questa abbacinante luce artificiale non tutte le frontiere sono scomparse, alcune, le peggiori, si sono semplicemente frammentate per sfuggire alla logica e all’evoluzione sociale, hanno preso possesso delle nostre menti come facevano gli alieni ne “L’invasione degli ultracorpi”, e come quelli agivano quando la vittima dormiva, anche le frontiere ci invadono nel sonno, il sonno della ragione.
Le nuove frontiere si ergono come barriere, non come giunto di passaggio e mutamento, ci separano individualmente con pareti di paura ed egoismo, e lungo quelle marciano compatti i nostri eserciti di capricci e miserie al ritmo di squillanti fanfare che ci impediscono di udire alcunché. Ma non basta. Essendo simili, quelle ci cantano la stessa canzone, e capita che ci si trovi inconsciamente a ballare al ritmo della loro musica.
Ecco allora che le frontiere tornano di moda, e per maggior sicurezza se ne inventano di nuove. Melius abundare
Chi ha vissuto per decenni su questo frammentato angolino di mondo, e lo ha fatto con gli occhi aperti e la mente libera da preconcetti, non può che temere questo revanscismo nazionalista in quanto ne ha misurato i difetti e le conseguenze. Chi invece si è trovato sempre in ambienti abbastanza omogenei, prevedibili, permanenti non ha mai provato sulla sua pelle il prodotto della separatezza, e nemmeno immagina quanto alto potrebbe essere domani il costo di una scelta isolazionista. Il fatto è che ogni forma di protezionismo economico e politico è una posizione semplicistica, debole, anzi stupida, ma trova oggi troppe orecchie ben disposte verso gli altisonanti proclami di quei Barbariccia che si rivolgono ai ragionatori di pancia. Credere a soluzioni miracolistiche, al ripristino di condizioni superate dalla storia, alla favola che “piccolo è bello”, all’esistenza di complotti internazionali che sarebbero la causa dei problemi del paese, alla sicurezza garantita solo da invalicabili mura difensive, all’autocelebrazione dello stellone italico e dell’inesauribile genialità del suo popolo, a un nuovo salvifico Piave sociopolitico, ai benefici di confini e frontiere sarebbe peggio che illusorio, sarebbe stupido, e si sa che la stupidità porta sempre e solamente danno, il quale ricade su chi ne ha la colpa, ma purtroppo anche su chi non ne ha.
Mai vorrei rivedere le frontiere di ieri, sarebbe per me una distopia all’indietro, un paese di morti viventi che sarebbero troppo schifosi anche per un film di Romero, ma anche se così fosse non smetterei mai di agire come ho sempre fatto, ignorandole quando possibile, sbertucciandole se sollecitato, superandole per principio, rifiutando ogni ruolo prefissato, resistendo al comune sentire, sabotando ogni sciovinismo, ma lo farò diversamente da ora, lo farò più forte.

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