Tempi morti

Per motivi che ora non sto a spiegare, ieri mi trovai in città con un paio d’ore buche, e le spesi vagando senza meta e senza uno scopo preciso attraverso il deprimente panorama urbano meditando sulla pochezza dei prodotti in vetrina, sull’eccesso di latta circolante o parcheggiata, sulla diffusa latitanza del buon gusto e sulla sostanziale inutilità di quell’affannarsi da formiche. Stavo appunto facendo flanella quanto mi si parò di fronte l’ingresso di un centro commerciale. In genere tendo a evitare quei “non luoghi”, ma la noia mi spinse a tentare la sorte, sperando di scoprire qualcosa di veramente indisponente con cui riempire il mio grosso libro nero delle cose che non sopporto. Invece, quando si dice che il destino è bizzarro, la cosa più importante che trovai era quella che non c’era.
Vero è che molte cose non c’erano, a cominciare da un’atmosfera accogliente, sostituita da un’architettura sintetica nella quale si spandevano acusmatici i sedicenti suoni di una musica di sottofondo solo a tratti intelligibile. Mancavano i sorrisi, se si escludono quelli sindacali di chi si trova a vendere della merce di cui sa poco o nulla. Mancava il più infimo segnale di originalità, soppresso da marchi di grido e vetrine studiate per non disturbare. Mancava il colore, nel senso che tutti quelli che c’erano palesavano la loro artificialità e la loro drogata potenza. Mancavano gli spazi, in quanto una strisciante e incussa agorafobia spinge sempre ad allontanarsi dalla vuota distesa piastrellata in direzione magnetica delle chimeriche vetrine. Mancava infine una certa quantità di negozi, sostituiti da un’inflessibile saracinesca abbassata o da un telone che risultava tanto più malinconico quanto più foriero di prossime riaperture.
E va bene, a questo punto si sarà capito che a me i centri commerciali non piacciono, però va anche detto che non tutti i gusti sono alla vaniglia, perciò non ho nessun diritto di biasimare chi si trova suo agio in quelle onnicomprensive strutture il cui scopo è soddisfare le consolanti voglie consumistiche, e che perciò ama passarci del tempo.
Ecco, siamo finalmente arrivati al punto di domanda: quanto tempo?
Impossibile rispondere, e me ne resi conto solamente ieri mentre gironzolavo per i corridoi di quel bazar artificiale. Temendo di arrivare in ritardo all’appuntamento prefissato mi chiesi che ora avessi fatto. In genere non porto un orologio al polso e mi regolo con quello del telefonino. Però quello stava in una tasca dello zaino, e avrei dovuto slacciarmelo per arrivarci. Bene, ora sapete anche perché cercarmi al telefono è una perdita di tempo, dato che il più delle volte quello smette di trillare prima che c’arrivi. Chiusa la parentesi. Insomma, la mia ineffabile pigrizia mi suggerì di cercare un quadrante qualsiasi che indicasse l’ora corrente, immaginando inoltre che in quell’organizzatissima struttura un oggetto così banale sarebbe stato declinato in forme e prestazioni adeguate all’inflazione stilistica circostante.
Supposizione tanto logica quanto errata.
Orologi: non pervenuti.
Su due piani.
Risolto in autonomia il problema cronologico, la certezza di non essere assolutamente in ritardo mi permise di avviarmi verso la mia destinazione con la calma necessaria a sviluppare alcune considerazioni. Riandai con la memoria ad altri centri commerciali che avevo avuto la sfortuna di frequentare, e per nessuno di quelli mi si ripresentava la chiara immagine di un orologio, ergo, ne desunsi che non si trattava di semplice dimenticanza, bensì di una colpevole omissione dettata da una sottile strategia a effetto subliminale.
Sopra l’ingresso di ogni centro commerciale dovrebbe venire apposto bene in vista questo monito.
Per me si va come fedele cliente,
per me si va nell’etterno lucore,
per me si va tra il più conveniente.
Moneta mosse il mio alto fattore:
fecemi come americanate,
la somma totale dell’ultimo amore;
difuori di me non fuor cose create
se non moderne, e io etterno duro.
Lasciate ogne nozione, voi ch’intrate.
Perché è proprio una sorta di eternità che quelle strutture vanno a suggerire, e lo fanno eliminando ogni nozione del tempo che ivi si trascorre. Al concetto di “quando” si contrappone un perenne “adesso”, un eterno presente nel quale l’anima in pena, volevo dire il frequentatore, non sa cosa vuole ma la vuole subito, e solamente lì può trovare un istantaneo sollievo dalla sua afflizione, istantaneo perché è un attimo farsi ammaliare, per bramare, acquistare e ostentare la sua esistenza in quello stucchevole girone, soddisfacendo così la regola imperante “compro ergo sum”.
Istantaneo perché quell’inebriante sensazione dura appunto un istante, e di più non deve persistere poiché potrebbe venire contaminata dal dubbio di aver agito d’impulso o d’imbroglio, di aver ottenuto il possesso di una cosa effimera in cambio di una libbra della propria carne, di aver prostituito la propria innocenza, e pure pagando per riuscire a farlo.
Perciò via subito verso la prossima vetrina, la prossima offerta speciale, la prossima novità, la prossima illusione, senza che mai sia possibile ricordare il passato, nemmeno per compiacersene, e perciò ogni orologio deve sparire, non solamente come oggetto, ma anche come concetto di misurazione del tempo, giacché in quell’universo le equazioni einsteniane non hanno valore, mancando appunto uno dei fattori.
Si tratta in buona sostanza di un prato infinito, una distesa dove le pecore trovano sempre erba da brucare davanti al loro muso. Non si curano del passato, cosparso di radi steli e delle loro feci, e né tanto meno si danno pensiero per il futuro, stante l’apparente inesauribilità di ciò che soddisfa lo stomaco, vivono in un eterno presente, e nel nostro caso in una presente eternità.
Così è il subliminale messaggio che quell’assenza trasmette, ovvero che il tempo, anzi i tempi sono stati tutti uccisi, il tempo per riflettere, il tempo per dubitare, il tempo per discutere, il tempo per fermarsi, il tempo per rimpiangere, il tempo per capire che il tempo passa. Soppresso il tempo non rimane che l’eternità, e con quella si realizza il sogno supremo dell’essere umano, l’immortalità.
Peccato che essa corrisponda a un perfetto nulla.

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