Paste al mus

Iniziamo con alcuni cenni storici.
Nel 1830 veniva inaugurata la “Strada Nuova per Opcina”, ovvero una via più agevole della preesistente che risaliva al 1780. Si trattava di collegare Trieste all’altopiano carsico, un problema di non poco conto che rischiava di impedire lo sviluppo del porto franco fondato dall’imperatore Carlo VI nel 1719.
Tanto per capirci, al di fuori di alcuni sentieri malagevoli, prima del 1780 il Carso era raggiungibile attraverso un’erta salita denominata “Scala Santa”, una scala senza scalini e che non aveva nessun santo in paradiso. Infatti la denominazione deriva dalla parola slava “skala”, ossia la pietra (generalmente un miscuglio di marna e arenaria) nella quale era stata scavata la stretta via, e siccome l’acqua era una benedizione per i contadini locali, la presenza di una sorgente sul luogo ne decretò la santità. Si badi bene che Trieste dovette aspettare millecinquecento anni prima che l’imperatrice Maria Teresa ripristinasse un antico acquedotto romano ai piedi del Monte Spaccato, e solamente a metà dell’800 venne intercettata l’acqua del Timavo per rifornire la città. Prima di allora solo dei piccoli laghi (kal) e alcuni torrenti (potok o patok) costituivano l’incerta risorsa idrica della città e della sua cintura.
Scrivendo “agevole” forse non ho reso appieno l’idea di quel miglioramento viario. La Scala Santa presenta una pendenza media del 16%, con tratti al 20%, mentre la Strada Vecchia del 1780 (oggi Via Commerciale) ha una pendenza media del 7% con tratti al 16%. Magari oggi in automobile è sufficiente scegliere una marcia più bassa per percorrerle, ma all’epoca i cavalli e i buoi che trainavano dei pesanti carri si schiantavano su quelle salite.
Il percorso della Strada Nuova per Opcina era stato studiato per non superare la pendenza del 4%, il che contribui non poco a rendere quell’asse viario estremamente strategico per il porto di Trieste, tanto che nel 1839 venne eretto alla sommità della salita un obelisco commemorativo dell’opera, con dedica all’imperatore Francesco I.
Oltre alla valenza logistica, quel punto sul ciglione carsico divenne ben presto un’attrazione turistica, per merito del panorama sul golfo che da lì si poteva ammirare.

Quando l’imperatore Ferdinando I scese in visita a Trieste, gli venne riservata un’accoglienza, per l’epoca, abbastanza originale. La corte venne fatta accomodare all’interno di un enorme baldacchino chiuso su tre lati, una struttura costruita a ridosso dell’obelisco. Il lato aperto guardava verso la strada, verso il Carso, e da lì vennero declamati dai notabili triestini tutti i discorsi di benvenuto che tale cerimonia richiedeva. Al termine di quei complicati convenevoli venne aperto il lato del baldacchino alle spalle dell’imperatore, come se si trattasse di un sipario, ed egli rimase senza fiato dinnanzi allo spettacolo della città e del golfo intero a trecento e passa metri più in basso.


Si dà il caso che un tempo in quella zona sorgesse una rustica locanda, poi ingranditasi e trasformata in un’importante stazione di posta per il cambio dei cavalli. Non ci volle molto prima che qualche avveduto affarista cogliesse l’occasione dell’apertura della Nuova Strada per offrire un alloggio più che confortevole a tutti i viaggiatori decisi a godere delle amenità del luogo. Nel 1873 venne inaugurato il Gran Hotel Obelisque, una struttura che negli anni sarebbe diventata famosa come località dove godere di cure termali, aria buona e una tranquillità che ormai a Trieste era introvabile. Il famoso orientalista britannico Sir Richard Francis Burton scelse la pace di quell’Hotel per dedicarsi alla traduzione de “Le mille e una notte“.
L’apertura nel 1902 della tramvia elettrica Trieste-Opcina (prima a cremagliera, e in seguito come funicolare), nata per collegare la stazione della Ferrovia Meridionale (Südbahn) con la stazione della Ferrovia Transalpina (Wocheinerbahn), come uno shuttle avanti lettera, portò nuovi clienti, in quanto la linea scollinava esattamente davanti all’hotel.


Dopo la Grande Guerra sue fortune iniziarono a declinare (assieme purtroppo ad altre fortune), e nonostante vari ampliamenti e ristrutturazioni – l’ultima delle quali fu curata nientemeno che da Gae Aulenti – nel 1985 fu costretto a chiudere i battenti.
Da quel triste momento la struttura sta subendo le ingiurie del tempo, e non passa anno senza che il suo glorioso nome venga fatto oggetto di annunci colmi di promesse, progetti di trasformazione, valutazioni di interesse, specialmente in periodo elettorale, aria fritta che la Bora presto disperde.
Così la nobile facciata di quell’antico edificio osserva sconsolata la linea della storica tramvia, anche quella chiusa ormai dal 2016, in quanto il Comune di Trieste e la concessionaria per trasporto pubblico locale non sono capaci di rimetterla in funzione.
Le fotografie sottostanti che ho scattato pochi giorni fa rappresentano l’incuria, la miopia, la disattenzione, l’ignoranza, l’ignavia, che da decenni condannano allo sfacelo una struttura ricettiva che in un qualsiasi altro paese sarebbe stato tenuta come un fiore all’occhiello, come uno spettacolare messaggio di benvenuto, come una pagina di cultura della quale vantarsi.
Invece la città si accontenta di casette, lucette e musichette…

Nota: tutte le immagini “storiche” provengono dal sito www.spiz.it

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3 thoughts on “Paste al mus

    • Per fortuna non è così dappertutto, però ci sono parecchi posti che sono stati lasciati andare, in quanto si è puntato sui soliti punti di richiamo turistico, inflazionati e abusati.
      Che ci vuoi fare, fino al ’18 Trieste era una città dalle mille anime, oggi è una città senz’anima.
      Comunque se passi di qua mi devi avvisare, perché io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi 😀
      Ahoj

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