L’infelicità promessa

Pare, e ribadisco pare, che la pandemia dovuta al Coronavirus, oltre alla sua lunga coda di dolore e lutto, abbia portato alcuni benefici all’ambiente.
La forzata diminuzione del numero dei veicoli circolanti e la conseguente riduzione del consumo di idrocarburi ha reso, per un breve periodo, meno irrespirabile l’aria nei centri urbani.
La caduta verticale del volume di traffico aereo, come pure il minor numero di navi impegnate nel trasporto di merci o di vacanzieri hanno dimostrato quanto quelle attività fossero inquinanti per l’atmosfera.
Ricordo bene le espressioni estasiate di chi, pochi invero per motivi di quarantena, si beava alla vista dei canali di Venezia meno torbidi del solito, oppure i commenti compiaciuti che sempre accompagnavano le nuove e chiare immagini satellitari, come se tutti i problemi derivanti dalla pressione antropica sul pianeta fossero stati magicamente risolti.
Un vero peccato che tutto fosse il frutto di un malinteso.
L’apparenza inganna, dicono, e noi abbiamo deciso di autoingannarci come premio di (magra) consolazione, immaginando che ciò che vedevamo derivasse di una volontà di cambiamento (ne usciremo migliori, dicevano), quando invece di cambiare le proprie comode abitudini nessuno ha voglia.
Vi dirò di più. Nei due grafici sottostanti sono indicate le date del Earth Overshoot Day, il giorno in cui ogni paese ha prevedibilmente consumato le risorse naturalmente disponibili sul pianeta e perciò inizia a “fare debiti”, ossia a intaccare le risorse future sottraendole al domani dei nostri figli e nipoti, preparando per loro delle cambiali che non saranno in grado di onorare se non a costo di drammatici sacrifici. Ebbene, non è che tra il 2019 e il 2020 si noti una gran differenza.
Quindi?
Quindi si dovrebbe pensare a come mettere in atto, subito, oggi, delle misure che siano in grado di spostare in avanti quella fatidica data, avanti fino al 31 Dicembre, e per farlo la conditio sine qua non è smettere di rincorrere l’obiettivo della crescita a ogni costo, almeno fino a quando non riusciremo a trovare altri pianeti da spolpare, e anzi si ritiene necessario invertire il verso e rivolgere tutti gli sforzi verso la decrescita, la quale, per essere accettabile, dovrebbe essere felice.
L’effimera primavera di decrescita dovuta al lockdown ha presentato e tuttora presenta delle problematiche sociali ed economiche di vasto impatto e non semplice soluzione, aspetti negativi che sono diventati presto preda e bandiera dei populisti di ogni risma, e ora, se disponete di un briciolo di fantasia, fatevi un’immagine di cosa succederebbe se una tale decrescita fosse resa istituzionale e prolungata nel tempo. Personalmente dubito che l’aggettivo “felice” sarebbe il più rappresentativo per tale situazione.
Più di un anno fa, quindi in tempi non sospetti, scrissi su un altro blog l’articolo “L’infelicità promessa”, che qui ripropongo, nel quale andavo ipotizzando alcune conseguenze derivanti da un radicale mutamento del nostro modello di sviluppo, aspetti che interessano la produzione, il consumo, l’economia e faccende simili, però mai avrei pensato allora che in capo a qualche mese avrei condiviso con mezzo mondo i “piaceri” della decrescita, fermo restando che questa è auspicabile, dato che le alternative ce le offriranno presto i quattro cavalieri che già si appressano al galoppo.

 

L’infelicità promessa

Per un motivo o per un altro, capita spesso che Praga faccia capolino nei miei discorsi, anche quando questi ultimi non hanno nulla a che fare con la Boemia.
Il fatto è che lì certe immagini mi si stampano nella mente in maniera indelebile, forse per effetto di un rimescolamento psichico che l’atmosfera praghese sempre mi cagiona, e che ormai comincio a temere.
Vengo al punto.
Mi trovo seduto a uno dei tavoli della birreria “U Černého vola”, e già questo è un fatto eccezionale, primo perché sono a Praga, e secondo perché, nonostante questa piccola birreria sia quasi sempre piena, sono riuscito a trovare due posticini per me e Rossana.
Per chi non c’è mai stato, spenderei qualche parola per dare un paio di coordinate. Nella saletta ci sono solamente quattro tavoli di legno scuro, finiti sommariamente, attorno ai quali si possono accomodare (per così dire, dato che non ci sono sedie, ma solamente panche) dalle sei alle otto persone, dipende dalla loro stazza, e noi stiamo condividendo il tavolo con altri sconosciuti avventori, fatto assolutamente normale in quasi tutti i paesi europei.
Un rapido giro di radar uditivo mi conferma che siamo gli unici non boemi, e del resto pochi sono i turisti che qui si avventurano, pochi, ovviamente, a paragone di tutti quelli che intasano le birrerie più in voga. Qualora non bastassero a scoraggiarli la difficoltà nel riconoscere l’improbabile ingresso della birreria, sarebbe l’aspetto interno che si potrebbe definire “soavemente trascurato” a metterli in fuga, oppure i modi bruschi e indifferenti del nutrito personale di sala, ossia lo spillatore e il cameriere, entrambi sempre sorridenti come il mostro di Frankeinstein interpretato da Boris Karloff (qui un esempio).
Noi, ben consci che tale atteggiamento è tipico, quasi un marchio di fabbrica nei locali praghesi, non ci facciamo caso, anzi ci adeguiamo volentieri a questo rapporto essenziale, austero, basico, e veniamo ricambiati con l’invisibilità, cortesia altrimenti negata al turista.
Quindi, prima cosa, appoggio sul ripiano in legno i sottobicchieri di cartone, poi, al primo flemmatico passaggio del mostro di Frankenstein, indico un “due” con le dita e, con voce priva di ogni calore, preciso “černá”, ossia scure. Non serve altro.
Intanto che attendo le nostre Kozel, mi guardo un po’ attorno. Quasi immediatamente la mia attenzione viene rapita da un’immagine inusuale: all’estremità del tavolo di fronte al nostro una persona sta bevendo dell’acqua.
Si tratta di un uomo giovane, sui venticinque circa, giacca leggera blu di Prussia aperta su una camicia alice, capello mosso sul biondastro, e colorito tra lo slavato e l’esangue, quest’ultima percezione forse indotta dal suo sguardo triste immerso nella contemplazione di quel liquido incolore, inodore e insapore.
Ma a fare chiasso è il contrasto con la ragazza che gli siede accanto, la “sua” ragazza ipotizzo, una sadica do per certo.
Un tizzone acceso, ecco cosa sembra. Già il giubbino carminio dice molto di lei, e i due rotondi pomi rossicci degli zigomi le si intonano ammodo. I capelli corvini tirati indietro svelano tutto, la fronte alta e liscia, gli occhi brillanti, il volto più rotondo che ovale, le guance dalle morbidi curve che fanno ala alla regina del volto, una bocca dalle labbra vermiglie, la leggiadra messaggera d’amore, ma anche la porta per una delle meno effimere gioie terrene: la buona tavola.
Davanti a lei sta un boccale di birra chiara, il mezzo litro standard, forse nemmeno il primo, e accanto al boccale una porzione di salsicce con patatine fritte, e ancora qualcos’altro nel piatto che, per discrezione, evito di voler riconoscere a tutti i costi.
Ciò che sta calamitando il mio interesse non è la ragazza, anche se carina fuor di dubbio, carnalmente attraente, e né tanto meno lo stinto giovane che a lei si accompagna, bensì il feroce contrasto che li accomuna e allo stesso tempo li separa, la rassegnata continenza di lui alla quale si contrappone la gioia serena, verace, oserei definirla selvaggia, che da lei traspare a ogni boccone, a ogni sorso, a ogni sguardo verso il desco. Ecco, ora posso affermare di aver visto una persona alla quale ridono gli occhi.
E lì ho avuto, come San Paolo, una rivelazione.
Il giovane, per motivi salutistici, per obbligo medico, per altre cause che ignoro, si nega l’alcol e i grassi animali, mentre la ragazza, al contrario, non dico che si ingozzi, ma appare evidente che è lì per un motivo e uno soltanto, gustare i piaceri della tavola. E gli effetti immediati si vedono, lei appare tanto gongolante, luminosa nella sua gioia di vivere, appagata, quanto lui emana tristezza dal suo sguardo, dalla sua postura, dal suo bicchiere d’acqua.
Ma, in futuro, quali effetti si vedranno?
La di lei prorompente vitalità potrebbe virare in prorompente pinguedine. Le sue guance, belle ora come due pesche bianche, si afflosceranno, e la pelle non più setosa mostrerà tutte quelle piccole eruzioni attraverso le quali il magma lipidico trova finalmente il naturale sfogo. Questo sfacelo inestetico non sarebbe l’unica conseguenza, in quanto è probabile esso sia solo il vessillo di battaglia di altri nemici, invisibili quelli, ma non meno pericolosi: trigliceridi, colesterolo, diabete, peso eccessivo, problemi cardiocircolatori, e chi più ne ha più ne metta.
Guardo la ragazza: un velo di tristezza mi scende sugli occhi, e mi auguro per lei, sinceramente, tutto il bene possibile, o, come diceva il signor Spock, lunga vita e prosperità, giacché la parte razionale della mia mente si figura lui, il giovane in dieta, afflitto ma vivo, al capezzale di lei.
E vedo me, e vedo voi, e vedo noi, il destino che stiamo edificando, giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, kilowatt dopo kilowatt, un’entità umana e sovrumana, ingorda e insaziabile, ilare e miope, superba e suicida, incomprensibile nella sua stupidità.
Ormai lo sanno anche le pietre, tranne quelli che hanno meno cervello di una pietra, che stiamo consumando troppo, che stiamo firmando pile di cambiali che non potremo onorare, ma sappiate che quando il pianeta Terra deciderà che ne ha abbastanza di noi non si curerà dei nostri risparmi in obbligazioni sicure, non terrà contro di orari e di appuntamenti, riderà del sempre auspicato incremento del PIL, brucerà codici e banconote, e non verrà nessuna arca a salvarci, perché un tumore non va salvato, va estirpato.
A meno che…
A meno che la si smetta di raccontarci l’un l’altro la bugia più grossa di tutte: quella della decrescita felice.
L’ho vista a Praga la decrescita, come si sta a dieta, e, fidatevi, non vi era nemmeno l’ombra di felicità in quella condotta misurata.
Parliamoci chiaro, almeno per una volta. Cosa significa, in soldoni, la decrescita?
Facciamo degli esempi.
Io, a casa, mi scaldo con la legna, un sistema antico che non utilizza carburanti di origine fossile, e moderno perché non produce diossina. Quindi, bruciando biomasse rigenerabili, dovrei essere ecologicamente a posto.
E invece no.
Con la legna che brucio in un solo mese, prima della guerra ci si scaldava per un anno intero. Ma come facevano, erano più bravi di noi? No, semplicemente avevano freddo. Per mettermi in pari con l’emissione di CO2 dei miei nonni dovrei adeguarmi, ossia venti gradi in cucina, e nel resto della casa quello che passa il convento, ossia l’ambiente esterno, anche zero quindi.
Ditemi voi, sareste molto felici?
Facciamo allora l’esempio contrario.
Avete caldo in estate? No? Allora, o abitate sulle Svalbard, o state leggendo questo post a Natale, oppure avete l’aria condizionata, a casa, in ufficio, in automobile, nei negozi, ecc.
Bella invenzione quella, fa fresco, non si suda, non si puzza, e niente aloni sui capi colorati. Un vero peccato che quel sistema prelevi il calore da un ambiente interno e lo sputi nell’ambiente esterno, e per riuscire a farlo consumi anche molta elettricità, per produrre la quale sono stati necessari dei processi tecnologici che hanno liberato altro calore nell’ambiente esterno, quello stesso dal quale state cercano di difendervi abbassando la temperatura del termostato (col telecomando a pile, è ovvio).
Non serve essere dei luminari della fisica per capire che è una battaglia persa in partenza. Fuori fa caldo, e allora, per avere un po’ di refrigerio, faccio in maniera che fuori faccia ancora più caldo,e così mi tocca aumentare la potenza del refrigerante, con la conseguenza che fuori la temperatura aumenterà ancora di più, e così via, finché avremo venti gradi in casa e cento gradi all’esterno. Sarà da ridere (per quei pochi ancora vivi).
Per chi non fosse ancora convinto, ecco l’apparente paradosso del frigorifero in cucina.
Se in cucina avete freddo, per riscaldare l’ambiente è sufficiente aprire la porta del frigorifero. Lo so, a prima vista sembra una scemenza, ma ragionate un attimo. Il frigorifero sottrae calore ai ciò che sta al suo interno, e questo calore viene disperso nell’ambiente cucina dal condensatore, quella serpentina alettata che sta sul lato posteriore, e che, se la toccate, sentirete più calda.
Quindi aprendo la porta del frigorifero esso assorbe il calore, ma il condensatore posteriore lo restituisce quasi subito, e per farlo ha bisogno del compressore, una pompa dotata di motore elettrico, congegni che, durante il funzionamento si scaldano parecchio, immettendo a loro volta altro calore in cucina, almeno finché il frigorifero, sottoposto a questo gravoso compito, non deciderà di smettere di funzionare, per sempre.
Bene, allora rinunciamo all’aria condizionata.
Come, non siete felici nemmeno di questo?
Ora vi voglio fare una confessione: a mio gusto, un piatto di fagioli con la cipolla cruda affettata grossolanamente e una spolverata di pepe nero è un pranzo di nozze.
Però, fatto strano, pare che non piaccia a tutti. È un vero peccato perché, andando avanti così la faccenda, i fagioli con la cipolla potrebbero diventare un piatto da gourmet.
Vi racconto una storiella umoristica.
Il comandante di una grande stazione spaziale raduna tutto l’equipaggio, un centinaio tra astronauti e scienziati.
– Uomini, ho due notizie da darvi, una buona e una cattiva. Quale volete per prima?
Tutti si guardano, mormorando, finché una voce dall’assemblea si fa sentire sopra le altre.
– Beh, comandante, ci dia quella buona.
– Sta bene. Vi comunico che tutti i nostri impianti idroponici sono guasti. Da domani in avanti mangeremo solamente la merda.
– Ma…, ma…, come, e questa sarebbe una notizia buona? Ma la cattiva, allora, qual’è?
– Non ce n’è per tutti.
Fine dell’edificante storiella.
Vedete, voi che state leggendo queste righe, probabilmente stamane avete fatto colazione con dei biscotti, o pane e marmellata, o uova e pancetta, non ha importanza, ciò che conta è che non potrete più farlo.
Per pranzo avete gustato una cotoletta di maiale, una pasta col sugo o col pesto alla genovese, una fettina di tacchino ai ferri, del rombo al forno?
Li rimpiangerete.
Avete invitato degli amici a cena e volete stupirli con del salmone affumicato, sfogliata di carciofi e parmigiano, e, per finire, macedonia di frutta esotica col gelato?
Dimenticate, e stornate l’invito.
Se vogliamo decrescere dobbiamo accontentarci di cibi semplici, che non assorbano troppa acqua, e che abbiano una discreta resa vitaminica e proteica per ettaro lavorato.
Perciò anche i fagioli e la cipolla, per non parlare del pepe che diverrebbe prezioso come mille anni fa, sarebbero piatti riservati alle grandi occasioni.
Com’è, non siete felici della vostra nuova dieta a base di acqua e grano saraceno?
Cambiamo argomento.
Una volta all’anno arriva l’estate, tempo di ferie, di vacanze, di viaggi. Allora, d
ove andrete di bello?

Suppongo non troppo lontano, perché dovrete andarci a piedi, oppure, i più fortunati, in bicicletta.
Avete una vaga idea quanto costi al pianeta un aereo, o anche una semplice automobile?
Vi raccomanderei di non tenere conto del puro consumo di carburante, ma di considerare anche tutte le infrastrutture per costruire, mantenere, e far viaggiare quei mezzi. I consumi di suolo, aria ed energia sono pazzeschi, insostenibili, e se le cose stanno tuttora in piedi è perché il saldo dei costi accumulati viene continuamente procrastinato per non deprimere i mercati azionari.
Tanto per capirci, anni fa calcolai quanta aria respirabile avvelenavano le automobili, unicamente delle semplici utilitarie, percorrendo un tratto lungo un chilometro di una qualsiasi via del centro a quattro corsie. Saltò fuori che quelle utilitarie, nei quattro minuti di percorrenza, mangiavano 256 metri cubi di aria respirabile, ossia tutta quella di un appartamento medio di 85 metri quadrati. In soli quattro minuti! Lascio a voi il calcolo del consumo di aria per ben 12 ore di traffico, e se qualcuno desidera altri dettagli non ha che da chiedere.
Quindi, ogni viaggio sarà “slow”.
Ditemi, non possederete un’automobile, perciò risparmierete un mucchio di soldi, e ancora non siete felici della decrescita? Ma allora siete proprio incontentabili.
Va da sé che la decrescita non si ferma a queste minuzie, in quanto potrebbero presentarsi degli aspetti interessanti su vasta scala, conseguenze che cadrebbero a pioggia sull’attuale sistema socioeconomico, e alle quali si dovrebbe far fronte con strategie coraggiose e di grande respiro.
A prima vista si potrebbe supporre che l’interruzione dell’attuale sovrapproduzione industriale di beni sia il problema principale, in quanto comporterebbe il licenziamento di un considerevole numero di lavoratori, e quindi potrebbero sorgere delle tensioni sociali difficilmente controllabili, fino a doverle soffocare con la violenza di un regime autoritario.
Ricordo che qualche decennio fa si favoleggiava di un futuro nel quale le macchine avrebbero lavorato affiancando l’uomo, una fedele servitù tecnologica finalizzata al benessere del genere umano. Un vero peccato che la tecnologia non abbia sollevato l’uomo dalla fatica lavorativa, ma l’abbia esautorato con il solo fine di una produzione esagerata (quindi inutile) di pezzi, e una spasmodica corsa verso la riduzione dei costi, il tutto, nella maggior parte dei casi, a scapito della qualità.
Magari si potrebbe riprendere in mano quell’ingenua utopia rivedendo gli obiettivi e finalizzandoli a un miglioramento dei rapporti tempo/lavoro e produzione/consumo. Niente di inarrivabile, suppongo.
Il vero problema invece potrebbe essere causato dalle infrastrutture.
L’energia, la fornitura idrica, il sistema ospedaliero, la previdenza, la costruzione e la manutenzione delle vie e dei mezzi di trasporto, la gestione dei rifiuti, la gestione del territorio, e tutti gli altri servizi pubblici non si mantengono da sé, sono delle società finanziate, per dirla in maniera grossolana, dallo stato centrale, dalle istituzioni periferiche, e dagli utenti.
Una strada o una ferrovia vengono costruite con la prospettiva di collegare dei poli nei quali è previsto, e perciò favorito, uno sviluppo economico. Il costo iniziale dell’infrastruttura verrà ripagato nel tempo dalla tassazione diretta e indiretta proveniente dalle zone economiche che su quella insistono. Però, in caso di decrescita (felice o meno), tale sviluppo non è previsto, e anzi sarebbe auspicabile la contrazione dei poli economici non indispensabili.
Mancando questo flusso di cassa, e non scorgendo all’orizzonte nuove possibili fonti di finanziamento, verrebbero a mancare le risorse, e quindi molte vie di comunicazione tornerebbero al livello di quelle che percorreva il pellegrino nel Medioevo.
Eguale discorso si potrebbe fare per altri tipi di infrastrutture, e faccio fatica a immaginare la vostra felicità quando andrete al pozzo per tirare su un secchio d’acqua, oppure quando finalmente il cerusico del posto darà un’occhiata alla brutta scottatura che vi siete procurati accendendo il fuoco nel camino.
Quindi la decrescita equivale alla fine della civiltà?
Sì.
Ah, come sono felice allora.
Ebbene sì, lo sono, perché la decrescita decreterà la fine di “questa” civiltà.
Strano, ho la vaga impressione che il mio entusiasmo non sia condiviso, eppure dovrebbe.
Non vorrei apparire impietoso, ma sappiate che la civiltà, quella che voi, al pari del dottor Pangloss, considerate il migliore dei mondi possibili, ha le ore contate.
I sintomi della malattia esiziale sono evidenti: sovrappopolazione, inquinamento, riscaldamento globale, fanatismo religioso, accentramento del potere economico, esaurimento delle risorse, fascismi e nazionalismi, debito globale, proliferazione nucleare, e se vi viene in testa qualche altro sintomo non avete che da aggiungerlo alla lista.
Purtroppo l’esito previsto è infausto, in quanto il decorso della malattia comporta una fase che in questo caso particolare potrebbe uccidere il paziente, e questa fase ha un nome ben preciso: guerra.
Che sia economica, religiosa, nazionalista, razziale, comporterà, nel migliore dei casi, miliardi di vittime, e nel peggiore, tutte le vittime.
Purtroppo pare che non molte persone se ne rendano conto.
Mary Shelley ha immaginato che anche alla morte ci sia un rimedio, ma nemmeno una persona dotata della fantasia più sfrenata potrebbe ipotizzare che ci sia un rimedio alla stupidità, ed è quella la rovina del mondo.
È la stupidità che ci spinge ad accumulare beni e ricchezze che non ci servono, è la stupidità che ci spinge a odiare il vicino con la pelle o gli occhi non conformi ai nostri, è la stupidità che ci fa credere che i buoni stanno tutti in una chiesa e tutti i cattivi fuori dalla chiesa, è la stupidità che ci urla di non dare ascolto a chi afferma che forse abbiamo torto, è la stupidità che ci mette in riga dietro a un simbolo, di legno, di stoffa, di pietra, d’oro, e ci ordina di obbedire senza discutere, senza pensare, senza dubitare.
Migliaia di miliardi di dollari vengono buttati via ogni anno per vestire, armare e addestrare degli assassini, e ogni tanto bisogna rinnovare il guardaroba, perché bisogna pure farsi notare, e perché le armi più sofisticate sono come il latte, vanno in scadenza.
Così, con bandiere diverse, con divise diverse, con elmetti diversi, con armi diverse, con proclami diversi, tutti odiano tutti, e il nemico è ovunque. Solamente una cosa li accomuna sempre: un Dio è con loro, chiunque egli sia o comunque lo si chiami.
Tutti quei soldi sono cibo sottratto a bocche affamate, medicine negate a corpi malati, istruzione preclusa ai nuovi schiavi, esistenze vissute senza gioia e senza dignità.
Non ho cognizione di cosa ci riservi il futuro, non so se saranno i sanculotti del Terzo Mondo, o i fanatici islamici, o i neonazisti asiatici, o gli imperialisti americani a scatenare la guerra, ma quando non ci sarà più, come in quella storiella di prima, della merda per tutti, ci si scannerà senza pietà anche per quella.
Quindi, perché non augurarsi un coma farmacologico al posto di una fatale crisi epilettica?
La decrescita, per quanto, secondo me, auspicabile, di certo non sarà felice, e nemmeno generalizzata. Permarranno delle sacche di resistenza, gruppi economici troppo attaccati al potere, nazioni timorose di perdere il loro status privilegiato, popolazioni vogliose del benessere a loro sempre negato, bugiarde caste sacerdotali che negheranno l’evidenza e che lavoreranno per il disastro seguendo l’antica massima “del tanto peggio, tanto meglio” (per loro, ovviamente), persone spaventate dalla novità, che poi tanto novità non sarebbe, e dai disagi conseguenti, e, non servirebbe nemmeno dirlo, andrebbe tenuto conto anche della mandria ondivaga degli stupidi.
La sola speranza è che si riesca a far udire la verità, e che questa venga, a malincuore, compresa e accettata, come si fa per una diagnosi di una malattia grave, ma non incurabile. Da lì a formare un coerente movimento d’opinione in grado di orientare le scelte governative di una nazione il passo è, forze armate e servizi segreti permettendo, relativamente breve.
Quando si fosse formata una massa critica di nazioni “consapevoli”, potrebbero essere poste in quarantena le altre nazioni riottose al cambiamento, senza alcuna violenza, questo sia ben chiaro, bensì troncando ogni rapporto con le nazioni “conservatrici”. Queste ultime, probabilmente le più ricche e produttive, perderebbero parecchi clienti, e dato che basano le loro economie su complessi esercizi di equilibrio, sarebbero prima o poi costrette a cedere per evitare un catastrofico crac finanziario. Altre nazioni mostrerebbero i muscoli, ma la maledetta/benedetta globalizzazione ci ha reso tutti interdipendenti, e non sarebbe strano se gli eserciti si bloccassero per l’assenza di pochi ma insostituibili pezzi di ricambio provenienti da una delle nazioni “consapevoli”. Altri popoli non accetterebbero la decrescita comune, nella certezza che il loro destino, ovviamente rivelato da Dio in persona, è diverso. Anche in quei casi basterebbe aspettare che la miseria, fedele compagna di tutti gli integralismi religiosi, faccia il suo sporco lavoro. A quel punto, se la loro divinità non si decide a scendere di persona per salvarli, le persone decideranno di salvarsi da sé esautorando, con le buone o con le cattive, quegli ipocriti che, per sete di potere, tenevano in pugno il popolo mediante la minaccia della dannazione eterna.
Contro gli stupidi, come ho scritto sopra, non c’è rimedio, però tutti costoro hanno un punto debole: temono la solitudine di un’opinione personale, e anelano a una parola d’ordine, un indirizzo, un mood, qualsiasi cosa che fornisca loro un’etichetta nella quale possano riconoscersi. Perciò niente discorsi politici con loro, è sufficiente uno slogan pubblicitario.
È probabile che queste parole vengano considerate come i vaneggiamenti di un vecchio idealista, e accetto volentieri entrambi i termini, li prendo come un complimento. In primo luogo ricordatevi che “cane vecchio sa”, e poi che non ci si dovrebbe mai vergognare di essere degli idealisti.
Il mondo attuale si dibatte tra cinismo e fanatismo, perciò l’idealista è destinato a essere il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, e viene considerato uno sciocco sognatore, una figura passé, incapace di adeguarsi alla modernità.
Perciò, sì, posso apparire severo, beffardo, di sicuro sono uno scettico, e talvolta ferisco per il piacere di ferire, però sono anche un inguaribile idealista, e non potrebbe essere altrimenti, perché in caso contrario la realtà mi risulterebbe insopportabile.
E se, con la forza della logica, temo che potremmo essere costretti a disputarci le gallette di Soylent Verde, continuo a cercare nelle parole e nei gesti delle nuove generazioni la lucidità necessaria per distinguere ciò che vitale da ciò che è solamente utile, perché sarebbe assurdo pretendere che sorga dal nulla un singolare desiderio di infelicità senza che esse possano prima avvertire il pericoloso desiderio di morte che sta avvelenando l’attuale cosiddetta civiltà.

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3 thoughts on “L’infelicità promessa

  • Eccomi, sebbene un po’ in ritardo. Le tue osservazioni sono totalmente condivisibili. Io scrivo su un blog di cucina e cerco di non essere troppo pedante, ma come ho indicato, i miglioramenti che abbiamo osservato nel periodo di lockdown sono da considerare una casualità, e non una strutturata pianificazione. Nel migliore dei mondi possibile la decrescita felice potrebbe esistere, assicurando a tutti un tenore di vita decoroso, distribuendo meglio la ricchezza. Ma figurati! Non c’è un governo disposto a perdere consenso imponendo sacrifici, magari anche piccoli, non c’è una figura in grado di fare un progetto globale di ampio e illuminato respiro (forse Angela?). Comunque, alla base di tutto c’è la profonda ignoranza di chi si ostina a non informarsi, a non capire, e a vivere nell’indifferenza privilegiando i propri comodi, inconsapevole di quanto male faccia anche a se stesso. Vedo un futuro fosco e tragico, e con due figli e un nipotino il dolore è tanto

    • Ciao.
      Mi permetto di farti osservare che il tuo blog va oltre un curato ricettario, in quanto può indicare una via per “smorzare” i disagi di una salutare riduzione dei costumi, scelta o imposta che sia, un aspetto che dovremmo valutare meglio alla luce di quell’esperienza costrittiva.
      Il rifiuto del piatto pronto, artefatto e iperorganolettico, in favore di una cucina semplice che cura invece la qualità della materia prima “nostrana”, è una chiara scelta di campo, ed è una scelta scomoda perché si passa per talebani salutisti, per snob attaccati all’apparenza rustica, per elitari gourmet di facciata, per nostalgici di un passato (inteso come periodo temporale e non come salsa) mai esistito, per creduloni del marchio bio, per benestanti cretini, dato che generalmente i prodotti genuini costano di più di quelli “standard”, e chi più ne ha più ne metta.
      Io sono invece del parere che a tavola si possa trovare quel benessere (per la felicità non oso pronunciarmi) che andiamo inutilmente cercando negli ammennicoli che intasano i nostri centri commerciali, le nostre abitazioni e le nostre discariche, che la soddisfazione può essere doppia quando gli ingredienti sono avvertiti non come beni di consumo, bensì come compagni di viaggio, quello della vita, e mi piace immaginare che anche tu la pensi così.
      Ahoj

      • Ti ringrazio molto, prendo tutto come un complimento. Più che nel blog, nel libro mi sono impegnata a insistere sull’importanza della consapevolezza di quello che mangiamo. Si può (e si dovrebbe) mangiare bene senza spendere cifre assurde, senza ammattire nella ricerca del cibo migliore, senza perderci tanto tempo. Semplicemente sapendo quello che si fa, e dedicando al cibo lo stesso tempo che, magari, troviamo per la palestra o altre attività, per carità utilissime, ma anche mangiare bene lo è. E i risultati in termini di salute sono sempre incoraggianti.

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