Ancora una volta, l’ennesima, mi trovo a dover esprimere una mia valutazione su come trovi illogici e deprimenti alcuni aspetti della nostra società consumistica.
Vorrei premettere che non sono affetto da ascetico pauperismo, pure io desidero e trovo soddisfazione nel possesso di determinati beni, alcuni talvolta inessenziali nella maniera più assoluta, però sono “alcuni”, e per di più son goduti con piena consapevolezza dello scialo, quindi ammetto la mia umana debolezza.
Ciò che non sopporto è quella sorta di disturbo ossessivo compulsivo che sembra affliggere un numero sempre maggiore di persone. Appare come una necessità irrefrenabile di soddisfare voglie minime e immediate, un godimento di corto respiro che è più appariscente che reale, come lo è la fiamma di un pezzo di carta che brucia, che non scalda e non dura, giusto un’illusione che regala un attimo di luce e un mucchietto di cenere.
Ma cos’è che avrebbe scatenato stavolta la mia ira funesta?
Le uova.
Calma, ora mi spiego. Quelle sono state solo la miccia, un episodio minimo, oserei dire insignificante se non fosse per la mia brutta abitudine di fare d’ogni mosca un elefante.
Tutto è successo durante una delle mie sporadiche presenze in un supermercato, mentre m’aggiravo tra le corsie in cerca della pasta fillo e poco altro, quando passando accanto alla zona delle uova m’è capitato di constatare come le persone conducevano il loro acquisto. Ve lo dirò, sembrava facilissimo: dopo una veloce riflessione sulla quantità da procacciarsi, ossia quattro, sei o dieci, allungavano una mano e mettevano una confezione nel carrello. Rimasi lì per un buon quarto d’ora, e mai una persona che avesse dato un’occhiata alla data di scadenza. Immaginai che in quel punto vendita fossero disponibili solamente uova freschissime, quindi ogni controllo preliminare sarebbe apparso superfluo, ma essendo io un perverso malfidente m’avvicinai per una verifica.
Premetto subito che tutte le confezioni da me esaminate riportavano una data di scadenza successiva a quel giorno, ma… quand’erano state deposte?
Per saperlo basta fare una semplice operazione matematica, ovvero sottrarre ventotto giorni alla data indicata sulla scatola. Questa informazione è tutt’altro che inutile, giacché l’uovo è qualcosa di vivo che si degrada col tempo, e il suo uso in cucina è legato alla freschezza. Può essere tranquillamente utilizzato crudo entro quattro giorni dalla deposizione, e cotto entro ventun giorni dalla stessa data, dopodiché, anche se la data di scadenza impressa sulla confezione assicurerebbe il contrario, il mio consiglio è quello di destinarlo ad altri usi (es. cosmetici).
Torniamo allora in quel supermercato. Fatti quattro conti, le uova avevano un minimo di dieci a un massimo di ventitré giorni di distanza dalla data di deposizione. Venne da chiedermi quante di quelle persone distratte si sarebbero preparate una maionese, una carbonara, un tiramisù con quelle uova “attempate”, ma mi rassicurò la convinzione che se tale era il loro disinteresse nei confronti della qualità degli ingredienti, allora non erano tipi da cimentarsi con manicaretti elaborati, al massimo si sarebbero limitate a preparare una frittata o delle uova sode.
Da lì è stato un attimo ripensare a cosa mi capita sovente di osservare nei supermercati e nei centri commerciali, ovvero la paura di lasciarsi sfuggire un appetito ancora sconosciuto, l’ebbrezza della tentazione eterodiretta, il fascino di farsi condurre nel paese dei balocchi, il godimento offerto da un sistema che si prostituisce in ogni vetrina, ma nessuna gioia autentica. Perché non si vive di solo pane, ma anche di vestiti griffati, di sneaker, di occhiali da sole, di orologi, di smartphone, di bigiotteria, di chincaglieria, di accessori per la casa, di piccoli elettrodomestici, tanto graziosi quanto delicati, e poi di companatico, tanto, troppo, esotico, nostrano, in saldo, fuori stagione, fresco, congelato, superprocessato, sapidissimo, stucchevole, comunque sempre bellissimo.
Che dire poi di questa mania di confezionare tutto nella plastica in porzioni monocellulari? Ma non ce l’avete in casa un vassoio, un frigorifero, un contenitore ermetico, una bilancia? Ma dove tenete la verdura e la frutta, in un ambiente contaminato da gas velenosi, da voracissimi topi, da superbatteri, da polveri epossidiche? Ne deduco allora che la merce in vendita dev’essere più che bella, dev’essere perfetta, immacolata, liliale, un’immagine da favola, anche se può capitare che il contenitore sia più saporito del contenuto.
Accidenti, le mie lamentazioni sono come le ciliegie, una tira l’altra.
L’aggettivo “saporito” mi porta a dover toccare un altro tasto dolente, quello della debolezza organolettica di una larga fetta di consumatori, e ho utilizzato questa definizione per non essere troppo radicale, per non apparire come lo spocchioso esponente di una frangia elitaria di gourmet.
Come metalmeccanico con famiglia a carico ho dovuto spesso fare i conti con i limiti del bilancio familiare, perciò nella mia cucina sono sempre mancati i cosiddetti “manicaretti”. Al loro posto facevano la loro bella figura i piatti della tradizione, o quelli che esaltavano il prodotto fresco e la produzione locale, ciò che il mio generoso mare regala e che questo francobollo di terra fa nascere. Le conseguenze di questa “politica” alimentare sono state molteplici. In primo luogo ho contribuito alla sopravvivenza dei piccoli produttori locali, in contrasto con la grande distribuzione che ci vuole allineati verso uno standard commerciale nel quale la scelta è solamente illusoria.
Non sarebbe nemmeno trascurabile l’impegno per mantenere viva e vitale la cucina che ha caratterizzato la mia terra per secoli, ricette e ingredienti che hanno subito influenze austriache, veneziane, slovene, ungheresi, alsaziane, greche, slovacche, ebree, balcaniche, turche, tanto per restare nei paraggi, e che oggi faticano a trovare posto in mezzo a un marasma di intingoli alquanto esotici e abbastanza fasulli.
Il fatto di utilizzare ingredienti riconoscibili e preparazioni familiari ha contribuito a mantenere eccellenti i sensi del gusto e dell’olfatto, il che ha due risvolti, uno positivo e un altro negativo. Il primo mi consente di poter apprezzare come meritano i sapori, i profumi e gli aromi di quanto trovo nel piatto o nel bicchiere, mentre il secondo m’allontana dalla maggior parte dei locali pubblici nei quali vengono serviti cibi e bevande. Nel post “Aria fritta” offro un esempio di come ciò che per alcuni (troppi, secondo me) è apprezzabile, persino gradevole, non raggiunge per me nemmeno l’etichetta di “commestibile”.
Una conseguenza scomoda delle mie scelte alimentari è il supplemento di costi che devo sopportare per garantirmi un certo livello qualitativo di quel che metterò in piatto. C’è poco da fare, pur rivolgendomi direttamente al produttore il prezzo è superiore a quello generalmente applicato dalla grande distribuzione, e ciò talvolta genera sconcerto nelle persone con le quali tratto questo argomento, in quanto trovano la mia scelta stravagante e illusoria.
Forse lo è, ma sono abbastanza certo che chi mi muove quelle critiche non sa distinguere un pesce pescato da uno allevato, né alla vista, né al tatto e né al palato, non si rende conto che un litro di olio d’oliva extravergine IGP toscano non può costare solamente 5€, le olive toscane costano 1€/kg (servono 6kg per 1 litro), e comunque la Toscana non è grande come l’Australia, ignora lo sfruttamento brutale al quale vengono sottoposti i terreni prima, e le persone durante tutto il processo, per offrire frutta e verdura, compresi i relativi prodotti lavorati, a prezzi bassissimi, fino rendere antieconomica anche l’autoproduzione, non ha mai assistito allo spreco generato dal vizio di pretendere un cibo sempre perfetto, sempre asettico, sempre uguale, immagini da fumetto o da cartellone pubblicitario, non avverte la velocità con la quale ci stiamo avvicinando al precipizio, in fondo al quale c’attende il Soylent Verde.
Posso comprendere il disappunto di coloro che, facendo fatica ad arrivare a fine mese, potrebbero trovare ingiustificate e disdegnose le mie argomentazioni, so bene che spesso non hanno scelta al di fuori di un Hard Discount, e talvolta anche quella spesa è fonte di preoccupazione, lo so perché mi capita di partecipare a un’attività di aiuto a persone in difficoltà economiche, però siamo di fronte a una guerra tra poveri, tra penultimi che lottano per non diventare gli ultimi, una fascia sociale dove si vive (male) grazie a un esercito di invisibili, di persone fuori casta che sono persino mal sopportate, gli ultimi appunto, paria utilizzati come macchine fatte di carne e sangue e programmati per fornire a prezzi bassissimi la materia prima all’industria alimentare, quella stessa della Lola, della Rosita, della Carolina, dei mulini, delle nonne, delle verdure danzanti, dei pallonari e compagnia cantante.
Ma almeno noi che possiamo ancora scegliere dovremmo evitare di cadere nel tranello del prezzo stracciato, magari rinunciando all’acquisto dell’ultimo gadget elettronico, tanto seducente quanto inutile a breve, per scegliere di spendere qualcosa di più in qualità e di meno in quantità, nei consumi in generale e nell’alimentazione prima di tutto.
Vinceranno i produttori onesti che non sfruttano i disperati, vinceranno le catene brevi di distribuzione, vinceranno quelli che offrono un prodotto di qualità, e alla fine vincerete anche voi. Un antico detto afferma che l’uomo può vivere con un terzo di quello che mangia, e con i restanti due terzi vivono i dottori.
Sapevatelo.
P.S.
Questa è solo la prima puntata. Altri aspetti deleteri del consumismo saranno oggetto di successive geremiadi.
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