Le verità di Pinocchio
Ottava puntata
Era una bella giornata di sole, perciò Pinocchio restò per un momento quasi accecato da tutta quella luce che illuminava la via, e per di più a quell’ora c’era un discreto via vai di gente, figure in movimento che egli faceva fatica a distinguere bene. Rimase frastornato per qualche momento, finché una voce dal tono divertito lo svegliò dallo smarrimento.
– Toh, guarda, un uccellino è scappato dalla gabbia.
Pinocchio si volse in direzione di chi aveva parlato e vide poco lontano un carrettiere che lo fissava e che richiamava l’attenzione dei suoi compari.
– Ehi, venite a vedere, chissà se anche canta come un fringuello!
Pinocchio non era dell’umore tale da sopportare di essere preso in giro, fece una boccaccia al carrettiere e se ne andò, inseguito dalle risate e dai lazzi della compagnia di sfaccendati che s’era rapidamente riunita.
Mentre camminava pensava, e tale era la sua apprensione che nemmeno s’accorgeva di farsi scappare dalla bocca i suoi pensieri.
– E ora, dove vado? A scuola non si può più. Forse in campagna? E poi a far cosa?
D’andare in giro per il paese non se la sentiva, c’era il rischio che i gendarmi lo stessero ancora cercando, ma nemmeno a casa poteva tornare perché a Geppetto sarebbe venuto il crepacuore sapendo che era di nuovo scappato dalla scuola. Comunque il suo cruccio più grande restava quello dei soldi da dare al farmacista; il babbo aveva bisogno della medicina, ma come pagarla, come…
Pinocchio camminava e pensava, pensava e camminava, e intanto le gambe lo portarono giusto nei pressi della grande falegnameria, dove si fermò di botto, quasi sorpreso di non aver capito prima che stava lì la soluzione di tutti i loro problemi.
– Ma certo, ecco come farò!
L’ingresso della fabbrica era un continuo andirivieni di carri trainati da cavalli; entravano pieni di tronchi o assi appena sbozzate, e ne uscivano carichi di armadi, sedie, tavoli e tavolini accuratamente imballati. Sbirciando nel grande cortile Pinocchio notò come la fine segatura formasse una nebbiolina che aleggiava su tutte le cose e le persone, rivestendole di uno strato sottile di polverino che s’alzava al minimo alito di vento; nell’aria gravava un odore pesante di pece e legno bruciato, ben diverso dal buon profumo di resina che talvolta si sentiva nella falegnameria del suo babbo; da un punto indistinto in lontananza proveniva un rumore sordo che calava e cresceva ma che non si fermava mai, un raschiare e colpire che poteva venir generato solamente da qualcosa di enorme e diabolico, forse da un mostro in catene.
Pinocchio scacciò quella spaventosa visione, fermò una persona che pareva un po’ meno indaffarata delle altre d’intorno e gli chiese dove poteva trovare il Capomastro. L’uomo alzò un braccio verso una certa direzione nella foschia, e solamente allora Pinocchio s’accorse che quell’indice con l’unghia nera che gli mostrava la via era, oltre al pollice, l’unico dito rimasto di quella mano.
Non era un bel vedere, tanto meno per un fanciullo, e per lo spavento Pinocchio quasi si dimenticò di ringraziare prima di avviarsi verso la baracca distante una trentina di passi dove, secondo quell’uomo, stava il Capomastro. Lo trovò giusto fuori dalla porta, intento a masticar tabacco, sbraitare, brontolare, sputare, scrutare chi passava e dare ordini, sempre con sguardo torvo e fare brusco. Qualsiasi persona di buon senso si sarebbe tenuta lontanissima da quell’orco in palandrana nera, ma a Pinocchio non era concessa quella licenza, perciò gli si avvicinò a piccoli passi e testa bassa.
– B… buongiorno – salutò educatamente Pinocchio.
– Buongiorno un corno d’un accidente che ti piglia! – gli rispose urlando l’omaccione. – Chi sei, che ci fai qui?
– Io sarei, ehm, io sono il figlio di Geppetto, si ricorda? Son già stato qui ieri.
– Ah, bene, benissimo, a quanto pare il “signore” ha deciso anche oggi di far festa! Che bella notizia! Bravo lui! E io, vedi che fesso, vengo a lavorare tutti giorni! Doveva giusto arrivare Geppetto a mostrarmi come si vive! Senti, puoi dire a quello scansafatiche che se mai lo rivedo ancora qui lo metto a drizzare chiodi usati o dare il catrame!
Per quella sfuriata il Capomastro s’era messo a bella posta con i pugni piantati sui fianchi e aveva trovato nel suo repertorio il tono di voce più acido possibile, perciò si stupì non poco nel constatare che il ragazzino non stava già scappando a gambe levate verso l’uscita.
Invece Pinocchio stava sopportando la valanga di male parole come si contrasta un colpo di vento, piantando bene i piedi e piegandosi un poco in avanti. Doveva resistere, non aveva scelta, e intanto quel bruto lo incalzava con rimbrotti e versacci, aiutandosi con espressioni facciali talmente esagerate da far concorrenza alle maschere scolpite all’ingresso principale del teatro.
Approfittando di un attimo di pausa, giacché nemmeno il Capomastro poteva parlare, gridare, masticar tabacco e sputare nello stesso tempo, Pinocchio attaccò col discorsetto che s’era preparato mentalmente strada facendo.
– La prego, mi ascolti signor Capomastro, si dà il caso che il mio babbo sia veramente ammalato, e io avrei…
Ma non riuscì a proseguire oltre. L’emozione prima lo fece impappinare, poi cominciò a perdere il filo, e infine non si ricordò più nulla di quello che s’era ripromesso di dire. Così raccontò al Capomastro tutte le sue disavventure, dall’inizio, il malore del povero babbo, il dottore superbo, il farmacista venale, il verduraio imbroglione, il gatto e la volpe profittatori, i gendarmi implacabili, il maestro arcigno e gli scolari dispettosi. Nella foga gli raccontò anche della strana chiacchierata con l’asino, non rendendosi conto che per una cosa del genere uno rischiava di finire alla pazzeria. Concluse la cronaca delle sue disavventure a testa bassa per nascondere le lacrime.
– …e così, se a voi sta bene, verrei io a lavorare al posto del babbo, anche a metà paga, perché ho bisogno dei soldi per la medicina. Vi prego.
Per tutto il tempo il Capomastro era rimasto immobile, a braccia conserte, in silenzio, comunque sempre accigliato, sporgendo il labbro inferiore. Alla fine della narrazione rimase a fissare Pinocchio ancora per qualche secondo, poi esplose in una fragorosa risata.
– Ah, ah, ah, ah, tu vorresti lavorare qui? Ah, ah, ah, questa e bella. E cosa ti metto a fare, scolaretto, a spostare le matite? Fila via soldo di cacio, torna a casa, che questo è posto per uomini, non per bambini che puzzano ancora di latte!
– Questo non è vero! – protestò Pinocchio. – Non sono più un bambino, io… ecco, guardi!
A qualche metro da loro c’era un grande cassone aperto dove veniva accumulata la segatura. Una lunga asse di legno andava da un bordo fino al terreno, così da poterci scaricare il materiale con una carriola. E appunto lì accanto ce ne stava una carriola piena, così Pinocchio pensò bene di dimostrare per mezzo di quella che era buono a lavorare. Di segatura ne aveva già vista a casa del babbo, perciò sapeva che non era molto pesante, e nonostante i manici fossero un po’ larghi per lui li agguantò con decisione e li sollevò. I problemi iniziarono quando si trattò di spingere per arrivare all’inizio dell’asse. Per quanti sforzi Pinocchio facesse, quella maledetta carriola si rifiutava di procedere, sembrava inchiodata al terreno. Rosso in viso come un peperone, dette uno strattone alla carriola tirandola indietro di qualche centimetro, poi, puntando i piedi, ci si buttò contro con tutta la forza che aveva, e finalmente quella si mosse. Come se avesse dichiarato la sua resa incondizionata, la carriola prese ad andare con facilità, anzi a Pinocchio sembrava che quella avesse persino fretta di alleggerirsi del suo carico e che andasse da sé. Dopo qualche metro arrivarono, lui e la carriola, al largo asse di legno che saliva fino al bordo del cassone, ci fu un sobbalzo quando la ruota attaccò la rampa, ma, tranne che per quell’intoppo di poco conto, entrambi parevano procedere con un certo affiatamento, fino alla prevedibile catastrofe. Pur essendo la pendenza abbastanza contenuta, quella era bastante per far perdere l’abbrivio a chi, come Pinocchio, non disponeva della forza necessaria per far procedere la carriola con speditezza, e le conseguenze si palesarono quando il peso della segatura si fece sentire, prima indietro e poi su un lato, fino a quando il pur volonteroso fanciullo non riuscì più a mantenerla diritta. Per timore che quella, ormai decisa a non procedere oltre, lo travolgesse qualora fosse andata all’indietro, Pinocchio mollò tutto e saltò giù dalla passerella, in fondo non era neanche a un metro dal terreno, ma la carriola aveva ancora un conto in sospeso con lui, perciò pensò bene di posarsi di fianco per rovesciargli addosso il suo contenuto.
Poco mancò che, dal ridere, il Capomastro si strozzasse col tabacco. Prese Pinocchio per il colletto della giubba e lo sollevò da terra apparentemente senza sforzo. L’omaccione lo scrollava tenendolo con una mano sola e intanto continuava a ridere.
– Ah, ah, ah, ma dove vai, tappo! Ah, ah, ah, non vali neanche le schegge di legno che ti buscheresti in quelle mani da signorina. Fila a casa e non venirmi più tra i piedi! Ah, ah, ah!
Infine lo posò di nuovo a terra e gli affibbiò uno sculaccione per allontanarlo.
Spinto dalla manata, Pinocchio attraversò incespicando tutto il piazzale di fronte alla baracca, fino a ruzzolare giusto in mezzo a un altro mucchio di trucioli. Sbuffando e tossendo per il legno che gli era entrato nella bocca e nel naso, si allontanò mestamente.
– E adesso, dove vado? – pensava.
A lavorare dai contadini non poteva, lo conoscevano fin troppo bene; capacissimi di sparargli a sale appena lo vedevano. Commercianti e artigiani non prendevano bambini a bottega. Avrebbe potuto chiedere l’elemosina, ma ci sarebbe voluto troppo tempo, sempre se non lo trovano i gendarmi, e di quel passo il babbo il babbo non sarebbe mai guarito.
Sempre immerso nel suo cruccio, Pinocchio cominciò a levare la segatura di legno che gli si era infilata dappertutto quando, rovistando nelle tasche, trovò qualcosa che prima non c’era, e non era legno.
– Ma questi sono…
Sbalordito, guardava nella sua piccola mano tre zecchini ancora sporchi di segatura.
– Ma, com’è possibile?
A un tratto capì tutto di colpo, e si girò per andare ad abbracciare il Capomastro, però, appena rientrato nella falegnameria, si fermò vedendolo in fondo al piazzale che stava dando una sonora lavata di capo ad un garzone che aveva imballato male il carico sul carro.
– No – si disse Pinocchio – di certo non gli farei un favore facendo capire a tutti che sono bastate quattro lacrime per intenerirlo. Lui certo non gradirebbe, lui, sul lavoro, vuole restare un orso per tutti. Ma è un orso dal cuore d’oro.
E così, dopo averne piante tante di amare, sulla guancia di Pinocchio scese una lacrima dolce come il miele. Fece allora dietro front e, sentendosi le ali ai piedi, corse velocemente verso il centro del paese, e in quattro e quattr’otto fu di fronte alla farmacia. Spalancò la porta a vetri ed entrò in quell’ambiente sempre in penombra, sempre misterioso.
– Buongiorno – disse Pinocchio, ancora ansimante. – Sono venuto… a prendere la medicina.
– Quale medicina prego? – chiese il farmacista.
– La medicina, la medicina per il babbo, ora i soldi ce li ho, tutti ce li ho.
Pinocchio consegnò al farmacista la ricetta, invero un po’ stropicciata, e posò un banco uno zecchino.
Il farmacista guardò prima la moneta che brillava sul ripiano di legno scuro, poi, presa la ricetta l’avvicinò agli occhi e si mise a leggere gli scarabocchi del dottore.
– Ma certo, ora ricordo, era ieri mattina. Bene, bene, ora la preparo.
Si girò verso gli scaffali ingombri d’ogni sorta di vasi e vasetti, bottiglie e bottigliette, scatole e scatoline, barattoli e barattolini, prese qualcosa qua e là ed entrò in una stanza sul retro, non prima di aver rassicurato il suo piccolo cliente.
– Se ha la pazienza di attendere qui le consegno subito il medicamento.
Pinocchio non poteva star fermo dall’impazienza, avrebbe volentieri ribaltato tutta la farmacia per aiutare il farmacista a preparare la medicina, ma quello aveva detto di attendere lì dove stava, e così fece.
Dopo alcuni minuti che al nostro sembrarono ore, quell’anima lunga e nera tornò dietro al suo bancone, e sfoderando un largo sorriso gli porse una bottiglietta quadrata. Come se si trattasse di una formula rituale, mise sul volto pallidissimo un’espressione compunta.
– Eccola servita, fanno quaranta soldi – e fece scorrere lo zecchino sul ripiano fino a farlo cadere dentro a un cassetto che teneva aperto.
– Trenta, ieri aveva detto trenta soldi, me lo rammento bene – protestò Pinocchio, senza perdere di vista la bottiglietta.
– Lei ha perfettamente ragione, però vede, oggi ho dovuto usare delle sostanze più care, quelle di ieri le ho finite. Sono veramente spiacente.
Il farmacista, ritenendo di aver chiuso l’argomento, tirò fuori da quello stesso cassetto i soldi del resto di un zecchino e li posò accanto al medicinale che aveva preparato, sempre facendo mostra di una cortesia interessata.
– Posso servirla in qualcos’altro?
Con una mano Pinocchio prese la bottiglietta, e con l’altra raccolse le monete, temendo che sparissero anche quelle, poi come un lampo uscì da quel locale scuro e odoroso, non senza prima aver borbottato un veloce – No, arrivederci e grazie.
Ehi! – gridò il farmacista. – Che diamine, quanta fretta!
Se qualcuno avesse visto Pinocchio in quel momento avrebbe sicuramente pensato che era un po’ picchiatello. Camminava, poi si metteva a correre per un tratto, poi, per paura di cadere e versare la medicina, si fermava di botto, poi riprendeva a camminare con passetti piccoli e veloci poi, ripreso dall’impazienza, si metteva a correre, e così fino alla porta di casa.
– Babbo, babbo, ho portato la tua medicina!
Entrato che fu nella cameretta di Geppetto, lo trovò seduto sul letto intento a sbocconcellare un po’ di pane col formaggio che Pinocchio gli aveva preparato prima di uscire.
– Ciao caro, ma come mai sei tornato così presto oggi? – gli chiese Geppetto.
La verità sarebbe stata semplice da dire, in realtà Pinocchio non aveva fatto nulla di male, se non fidarsi delle persone sbagliate. Anche il suo volonteroso tentativo di farsi assumere nella falegnameria era un gesto encomiabile, però, chissà perché, egli non se la sentì di raccontare le sue traversie al babbo, forse solamente per non farlo inquietare oltre.
– Già, ehm, a scuola sono, cioè siamo usciti prima perché… perché s’è rotto un tubo dell’acqua, e poi pioveva dentro, e così ci hanno mandato a casa
– Ma sei tutto sporco di segatura – osservò Geppetto. – Come mai?
– Segatura? Quale segatura? Ah questa dite, questa perché…
– Già, Perché?
Intanto che si spolverava via la segatura rimastagli addosso, Pinocchio prendeva tempo per inventare una ragione plausibile. Fu proprio mentre guardava la polvere di legno che era scivolata a terra che trovò una risposta al suo stato.
– Ma sì, la stavamo usando per asciugare l’acqua, e un po’ ce la siamo tirata addosso, per scherzo, ecco perché.
Per sua fortuna Pinocchio era ancora accaldato per la corsa, e così non fu palese che era diventato tutto rosso per la vergogna di aver, ancora una volta, inventato una bugia.
– Su, babbo qua c’è la medicina, prendila subito. Intanto io vado a prendere qualcosa da mangiare per il pranzo.
Posò la bottiglietta sullo sgabello accanto al letto e uscì di volata prima che Geppetto si mettesse di nuovo a far domande. Con gli zecchini del Capomastro riuscì a saldare qualche debituccio che avevano qua e là, e pure prese tutto quel che occorreva per preparare un bel brodo di gallina, quel che ci voleva per rimettere in sesto un convalescente. Per fare tutto ciò non ci mise più un’ora, ed era quasi arrivato a casa quando vide la porta di casa aperta e un confuso viavai di persone. C’era chi entrava richiamato da altri, c’era chi usciva a capo chino scuotendo la testa, c’era chi scrutava attraverso una finestra, e c’erano delle donne che, giusto in strada, mormoravano tra loro commenti e pettegolezzi. Appena varcato l’uscio, Pinocchio fece per entrare nella camera del babbo, ma nemmeno riuscì a vederlo. Un muro di gambe e schiene nascondevano il letto di Geppetto, e Pinocchio dovette fare forza per avvicinarsi.
– Babbo, babbo, che succede?
Geppetto non diede segno di averlo inteso. Stava disteso sul letto, cogli occhi chiusi, e ogni tanto era percorso da un brivido come se avesse freddo.
– Babbo che hai? Rispondimi, ti prego!
Dalla bocca di Geppetto uscivano solamente parole incomprensibili, e nemmeno intere, come quelle dei bambini piccoli o degli ubriachi, oltre a dei gemiti appena appena mugolati. Accanto al letto, sullo sgabello, stava la bottiglietta della medicina, vuota. Pinocchio si avvicinò ancor di più, prese a scuotere la spalla del babbo, continuando a chiamarlo, ma Geppetto non dava nemmeno segno di riconoscere la sua voce.
– Babbo, babbo, sono io, sono Pinocchio. Rispondimi ti prego. Babbo!
Se Geppetto non rispondeva, c’erano ben altre persone che avevano qualcosa da dire.
– Eh, poveretto, già si vedeva che non stava bene.
– Beveva, beveva, e prima o poi doveva succedere.
– Vero, non lavorava più, anche nella segheria si lamentavano di lui.
– E poi quel quel birbante di figliolo, quante gliene ha fatte passare!
– Sì, anche ieri l’ho visto bighellonare qui in giro.
– Ma guarda com’è magro, nemmeno mangiava.
– Se non lavori non guadagni, e se non guadagni non mangi.
– Per forza che non lavorava, era troppo caro.
– Aveva un brutto carattere, sempre a litigare, sempre a ribattere, mai contento.
– Hai ragione, il sangue cattivo porta malanni.
Alla fine una voce di donna esclamò. – Che ci fa questo bimbo qua? Su, portatelo via!
– Sì, via, via, che non è spettacolo per lui – rispose qualcun altro nella stanza.
Quella che per prima aveva parlato prese Pinocchio per la mano e lo trascinò fuori nonostante le proteste di quest’ultimo. Era una vicina di casa che qualche volta aveva aiutato Geppetto per i mestieri che gli uomini dicono di non saper fare.
– Cos’è successo, cos’ha il babbo ?
– Non si sa – rispose la donna. – Qualcuno ha sentito Geppetto gridare, chiamare aiuto, ma quand’è entrato era già in quello stato.
– Ma non m’ha risposto. Non m’ha riconosciuto! – esclamò singhiozzando Pinocchio.
– Non riconosce nessuno.
– Ma aveva preso la medicina. Doveva guarire. Il dottore aveva detto che sarebbe stato bene molto presto.
La donna, tenendogli la testa fra le pieghe della gonna, mormorò quasi tra sé e sé – Ah, le medicine, le medicine, il più delle volte fan più male che bene, e i dottori si danno molte arie, ma non ne capiscono nulla, per loro conta solo farsi pagare.
– E adesso?
– Adesso fatti coraggio, non devi disperare, vedrai che qualcosa succederà.
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