Le verità di Pinocchio
Settima puntata
Per strada comprò da un contadino che stava tornando in campagna un pezzo di formaggio di capra. Passando davanti al forno non sapeva decidersi a entrare; gli penava intaccare oltre quel poco che aveva guadagnato, ma, per guarire, il malato deve mangiare qualcosa, e così comprò due soldi di pane, poi filò di corsa a casa col pane sottobraccio e il formaggio nella tasca della giacchetta.
Appena rientrato si precipitò nella camera del babbo.
Geppetto era ancora a letto, ma in che stato! Non potendosi muovere aveva chiamato Pinocchio per tutto il giorno fino a perdere al voce; la sete lo aveva tormentato fin dalla mattina, e adesso aveva la gola tanto secca che faceva persino fatica a respirare.
Per prima cosa Pinocchio preparò una caraffa d’acqua fresca e la portò al babbo. Questi la bevve tutta d’un fiato e alla fine emise un “Aaahhh” di soddisfazione.
– Sai, ero preoccupato per te – furono le prime parole di Geppetto. – Non vedendoti ritornare subito da scuola temevo che ti fosse successo qualcosa o che fossi scappato di nuovo come quand’eri un burattino.
Quest’ultimo sospetto ferì Pinocchio più di ogni offesa che aveva ricevuto durante tutta quella lunga giornata, ma non disse nulla e ritornò in cucina.
Ritrovata la voce, Geppetto chiese: – hai portato la medicina?
Pinocchio non era più abituato a dir bugie, però se avesse detto la verità il babbo sarebbe rimasto così male da perdere ogni coraggio, così gli disse che non era pronta perché al farmacista mancavano le polverine giuste.
– Bah, questi dottori, prima ordinano la medicina e poi la medicina non si trova… – commentò Geppetto.
– Domani babbo, domani.
Nonostante non avesse mangiato niente per tutto il giorno, Geppetto brontolava che non aveva fame. Solo trattandolo come si fa con i bambini piccoli Pinocchio ottenne che si alzasse seduto sulla sponda del letto e che mangiasse un paio di fette di pane col formaggio, dopodiché il babbo si ridistese e si addormentò. Pinocchio allora tornò in cucina, si sedette per riposare e riflettere sul da farsi, ma dopo un po’ si addormentò di botto dalla stanchezza, con la testa posata sul braccio che aveva disteso sul tavolo.
La mattina dopo, molto sul presto, si svegliò tutto indolenzito per aver dormito in quella scomoda posizione; si stirò alla maniera dei gatti e quindi andò subito a vedere come stava il babbo. Vedendolo ancora addormentato uscì per comprare un un pentolino di latte fresco dalle contadine che scendevano la valle per andare al mercato.
Tornato a casa, bollì il latte che fece un dito di soffice panna, la spalmò su due fette di pane, una per lui e una per Geppetto. Lo andò a svegliare e gli portò il latte ancora caldo con un po’ del formaggio che era avanzato dalla sera prima, e la fetta di pane con la panna.
– Ora devo andare a scuola babbo.
Gli raccomandò di stare coperto, di finire di mangiare la prima colazione e di non alzarsi per nessun motivo, tanto che Geppetto finì con lo spazientirsi di tante raccomandazioni.
– Uffa, e va bene, va bene, resto a letto. Ora vai, vai pure a scuola, e non dimenticarti di passare a prendere la medicina.
Neanche in quel momento Pinocchio ebbe cuore di dirgli che di soldi per la medicina non ce n’erano, perciò si limitò a fare di sì con la testa, ma senza guardarlo in viso.
Lungo la strada Pinocchio vide spuntare oltre un muretto di cinta la chioma di un albero sul quale facevano bella mostra di sé delle belle pere, piccole e quasi mature. Con l’agilità di un gatto, si arrampicò sul bordo del muretto, strisciò fino all’albero e riuscì ad afferrarne un ramo.
– Bisogna pure che mangi qualcosa anch’io.
Pensava più con lo stomaco che con la testa perché sapeva una cosa era prendere un po’ di frutta in campagna, ma un’altra era farlo in città, dove gli alberi sono pochi e tenuti d’occhio come il tesoro del marajà. Difatti lo notarono quasi subito e cominciarono a urlargli dietro.
– Olà furfante, che combini lassù? Giù le mani dalle mie pere! Ladro!
Allora Pinocchio si mise frettolosamente in tasca ancora qualche frutto, saltò giù in strada e fuggì a gambe levate, lasciando il proprietario dell’albero con un palmo di naso.
Dopo un po’ levò dalle tasche una pera che cominciò a sbocconcellare. Quella era giusto dolce e matura, ma lui nemmeno ne sentiva il sapore tanto era intento a pensare al sistema di trovare i soldi per la medicina. Così, con le gambe che andavano da sole perché conoscevano bene la strada, Pinocchio giunse davanti alla scuola.
E non c’era nessuno.
– Che sia domenica? – pensò.
Gettò uno sguardo lungo la via e si convinse subito che non era giorno di festa.
– No di certo, artigiani e bottegai sanno tutti lavorando.
I nove rintocchi della campana della torre gli spiegarono perché non c’era nessuno fuori dalla scuola. Erano già tutti dentro, e lui era arrivato in ritardo!
Quando entrò in classe, mogio mogio col cappello in mano, il maestro lo fulminò con lo sguardo.
– Ma bravo, ma bene, andiamo sempre meglio. Già ieri il signorino non s’è fatto vedere, e oggi ha deciso di venire solamente dopo aver fatto i comodi suoi!
Pinocchio cercò di spiegare, di scusarsi, ma il maestro non gli credette, e presolo per un orecchio lo trascinò fino al suo banco, dove, rosso in viso come un pomodoro, egli si sedette, mentre nell’aula si udivano qua e là i risolini divertiti dei suoi compagni di classe. La lezione riprese e lui s’applicò a seguirla, anche se in testa gli ronzava come un fastidioso moscone il pensiero della medicina per il babbo. Quella era l’ora di geografia, e il maestro stava elencando nomi e caratteristiche di località lontane.
– Bene, ora… aprite il vostro atlante a pagina… eh… uhm… ventuno.
Pinocchio l’atlante non ce l’aveva e s’era abituato a sbirciare su quello del suo vicino di banco, ma quel giorno pareva che il maestro avesse occhi soltanto per lui e arrivò come una furia.
– Ah, vedo che anche oggi abbiamo dimenticato l’atlante, eh?
Pinocchio non voleva far sapere a tutti che il babbo Geppetto i soldi per comprare l’atlante non ce li aveva, e così aveva preso l’abitudine di far credere di averlo dimenticato, o perso. Col suo orgoglio sarebbe arrivato a preferire che si pensasse che l’aveva venduto per un biglietto del teatro dei burattini.
– Mi dispiace signor maestro, oggi non ce l’ho, ma la prossima…
– La prossima un corno! – sbottò il maestro
– Bene, se il professor Pinocchio ritiene di non aver bisogno dell’atlante venga alla lavagna, così vedremo quant’è bravo in geografia!
Sempre rosso in viso per la vergogna Pinocchio si alzò dal suo banco e andò alla lavagna, accanto a una grande carta geografica appesa alla parete.
– Ordunque, vediamo, mostraci dove si trovano i fiumi più lunghi del nostro paese – attaccò il maestro.
Pinocchio si girò e cominciò a guardare la carta.
Dovete sapere che il maestro aveva apposta fatto una domanda su una cosa che aveva spiegato il giorno che Pinocchio era assente. Questi per un po’ cercò i fiumi sulla mappa, ma poi, confuso da tanti nomi di monti, laghi, fiumi e città, si perse e cominciò a fissare la carta a caso.
– Ma dove guardi, dove? Nel mare? Cerchi forse i fiumi nell’oceano?
A quella battuta del maestro tutti i bambini si misero a ridere, meno Pinocchio che si sentì le orecchie scottare dalla vergogna.
– Basta, basta lasciamo stare! – proseguì il maestro. – Dimmi qualcosa dei laghi allora.
Pinocchio per un po’ restò zitto, poi rispose balbettando.
– Ma… signor maestro… io non lo so… non ricordo… perché… non ero a scuola… ero…
– Eri in giro, questo già lo sappiamo! – lo interruppe il maestro, fissandolo con sguardo arcigno.
– Eh lo so, s’è capito, a te piace bighellonare, andar per campi, a rubar la frutta eh? – lo incalzò. – Altro che andare a scuola, altro che studiare!
Pinocchio avrebbe voluto diventare piccolo e sparire, anche se ben sapeva che quelle accuse erano immeritate, però intanto il maestro, senza nemmeno guardarlo, andava avanti sprezzante con quella lavata di capo.
– Già, ma tanto tu sei un buono a nulla, un somaro, una testa di legno, un…
Pinocchio a un certo punto non ne poté più.
– Non è vero! Voi siete cattivo e ingiusto!
A quelle parole tutti, maestro compreso, si azzittirono e lo fissarono stupefatti. Pinocchio si volse verso i suoi compagni di classe.
– Anche voi siete cattivi perché mi prendete sempre in giro! Ridete di me perché non sono come voi, non ho bei quaderni e belle penne, e ridete di me se mi vedete addosso qualche vostro vecchio vestito che avevate buttato via! Ridete quando non ho le biglie per giocare e quando torno a casa da solo e quando…
A quel punto il groppo che Pinocchio aveva in gola gli salì agli occhi che si riempirono di lacrime.
– E poi i somari e le teste di legno sono migliori di voi perché non hanno mai fatto del male a nessuno.
Tirò su col naso, tornò al suo banco, prese le sue poche cose e andò verso la porta.
– Vi odio, vi odio tutti – mormorò al maestro e ai suoi compagni di classe ancora pietrificati dallo stupore.
Dopodiché, quasi spaventato dalle sue stesse parole, si girò e uscì di corsa dalla scuola.