Mi stai diludendo…

Pur essendo riconoscente a persone fin troppo benevole nei miei confronti, non ritengo di essere un granché come scrittore, anzi nemmeno mi considero uno scrittore, al massimo un muratore di parole. Ogni tanto capita che la mia vanità prenda il sopravvento e che mi lanci nella stesura di testi di dubbia interpretazione, ma poi ci pensa l’impietoso confronto con gli autori che preferisco a riportarmi con i piedi per terra e a suggerirmi l’invisibilità.
Se la differenza qualitativa tra loro e me è palese, non mi è chiaro come mai alcuni libri attuali abbiano avuto un successo, secondo me, ingiustificato. Tralascio qui di citare tutti quei prodotti collegati a personaggi famosi, i quali godono della fattiva collaborazione di uno stuolo di scrittori fantasma, una categoria senza la quale molte librerie si troverebbero con più di qualche scaffale desolatamente vuoto.
Le prime avvisaglie di tale insanabile dissenso apparvero in occasione della revisione del romanzo realizzato a quattro mani assieme a Nadia Mogni*, lei sì una vera scrittrice. In buona sostanza certe mie descrizioni erano troppo particolareggiate, mentre l’insistita punteggiatura rischiava di compromettere la scorrevolezza di lettura.
Ricevendo queste osservazioni da persone che di letteratura ne sapevano molto più di me trovai abbastanza logico procedere a un generale aggiornamento del testo, e con ciò intendo uno sforzo per rendere lo stile e il ritmo più vicini ai giorni nostri. A mia parziale scusante vorrei portare il fatto che i miei libri preferiti sono per la maggior parte risalenti al XIX secolo e alla prima metà del XX secolo, quindi era ovvio che fossi intriso di formule espressive parzialmente obsolete.
La soluzione al mio problema era dietro l’angolo, ovvero sarebbe bastato che prendessi esempio da libri di successo editi da poco tempo, in questo modo sarei riuscito a “svecchiare” il testo senza stravolgerne il senso, ma al termine di quell’esperimento ne sapevo meno di prima.
Mi spiego.
Fino ad allora ne avevo letti di libri “difficili”, James, Valery, Hesse, tanto per fare dei nomi, ma quei testi “contemporanei” mi risultarono oltremodo enigmatici, non per le trame, invero semplici e quasi prevedibili, bensì per l’apparente distanza tra qualità e consenso.
Non voglio qui fare dei nomi, non pubblicamente almeno, però sappiate che scorrendo quelle pagine mi sono imbattuto in ricostruzioni incerte o inesatte, intrecci poco credibili, futili barocchismi associati a drammatici strappi (che nelle intenzioni dell’autore dovrebbero assomigliare a dei colpi di scena), puro esibizionismo e, nota dolente, massima casualità della punteggiatura, tanto rada da rendermi faticosa la comprensione di quanto stavo leggendo.
La necessità di scrivere questo pippone è scaturita dopo la lettura di un libro di Bruce Chatwin, uno scrittore (ma non solo) che trovò notevole fama negli anni ‘80, diventando quasi un’icona letteraria. Purtroppo non riuscì a godere a lungo del successo, morendo relativamente giovane nel 1989.
Il libro si intitola “UTZ”, e il motivo della mia attenzione lo si deve alla sua ambientazione: Praga.
Chi mi conosce già sa quanto quella strana città mi sia cara, e quanto le sensazioni che mi regala trascendano il mero interesse turistico e le reminiscenze culturali, perciò decisi di farmi un regalo minimo per Natale (ovviamente su Ebay, ovviamente usato).
L’oggetto del libro sono le preziose porcellane di Meissen, collezionate compulsivamente da tale Kaspar Utz. Di tali porcellane so poco o nulla, perciò non mi arrischio in affermazioni concernenti la fattibilità di una collezione che, da quanto traspare dal testo, potrebbe essere stata sessant’anni fa una delle più preziose in Europa. La chiave di lettura del libro sta nell’assurda convivenza tra un regime totalitario che considera inammissibile la proprietà privata e il possesso di oggetti dal valore economico globale di miliardi di dollari, tra l’ottuso pragmatismo e il delirio estetico, tra la decadenza umana e l’eternità della bellezza, tra l’opprimente mondo esteriore e l’imperativo universo interiore.
Il messaggio di Chatwin è chiaro, l’arte e la cultura non hanno necessità di armarsi per combattere la tirannia, sia essa politica, economica, religiosa, o altro ancora, è più che sufficiente esistere, poi ci penserà la stupidità connessa all’arroganza del regime per decretarne la sua stessa rovina e la fine.
Purtroppo la lettura di questo libro è stata qua e là disturbata da una certa trascuratezza, forse generata da una scrittura frettolosa o dall’aggiunta eccessiva di riferimenti dei quali non si ha sufficiente consapevolezza.
Va da sé che da un romanzo non si pretende la stessa accuratezza di un saggio, però volendo raccontare delle vicende che si svolgono ai giorni nostri (relativamente s’intende) in luoghi esistenti e raggiungibili, un minimo di coerenza s’imporrebbe, se non dall’autore almeno dal revisore del testo.
Partiamo dall’abitazione del signor Kaspar Utz.
L’autore la pone in Široká 5, un edificio effettivamente esistente accanto al cimitero ebraico. Un vero peccato che ne dia una descrizione di fantasia, come se non l’avesse mai visto (e forse è così).
In primo luogo non c‘è un androne, tanto meno spazio per le pattumiere, e poi non ci sono mortuarie teste di Medusa, si tratta di un palazzo ebraico in stile quasi cubista, con fregi Yiddish. L’edificio era stato costruito per delle famiglie benestanti, con ambienti spaziosi, quindi mi è difficile credere a uno striminzito appartamento di due stanze. Penso che il testo non ne avrebbe sofferto evitando di voler essere così circostanziati nella collocazione urbana, oppure sarebbe stato meglio risultare più rigorosi.
Forse nel caso dell’abitazione di Utz la memoria ha tradito Chatwin, però in occasione del funerale di Utz sono abbastanza certo che la scarsa dimestichezza con le automobili d’oltrecortina abbia tirato un tiro mancino all’autore.
A quanto si legge nel libro, la bara arriva alla chiesa di San Sigismondo a bordo di una Tatra 603 adibita a carro funebre. Soprassediamo sul fatto che, a quanto io ne sappia, non esiste una tale chiesa a Praga. Esistono la cappella e la campana di San Sigismondo, nella cattedrale di San Vito, e in quella nemmeno mi risulta che sia presente sul pavimento un marmo policromo con lo stemma degli Rožmberk. Ciò che mi ha lasciato basito è la scelta della Tatra 603 per il carro funebre.
Si trattava di un modello di lusso destinato agli alti funzionari di partito, una berlina di rappresentanza insomma, ma quel che più conta è che stiamo parlando di un’autovettura con motore posteriore. Ora provateci voi a realizzare un carro funebre con un motore da ben due litri e mezzo di cilindrata dietro ai sedili posteriori! Per inciso, come carro funebre all’epoca venivano comunemente utilizzate le Škoda 1202 o le altrettanto vecchie Mercedes Benz W110.
Vediamo ora come ve la cavate con i colori.
Secondo voi che aspetto ha un vestito di velluto color tormalina? Se non lo sapete ve lo dico io, può essere blu, può essere verde, può essere rosa, può essere giallo, può essere nero, ovviamente in molte sfumature diverse. Per farla breve, dire color tormalina significa dire tutto e niente.
Insomma, accanto a definizioni inutilmente (e pericolosamente) accurate troviamo lande di grande incertezza, come per esempio nell’ubicazione di un matrimonio nella chiesa di San Nicola, omettendo di precisare se è quella in Staré Město o quella in Malá Strana (è la seconda).
Un errore marchiano, quello che in linguaggio tecnico viene definito uno “sfondone”, viene commesso dall’autore quando scrive che il condominio dove abita Utz ha i numeri 5 e 6. Ora, lo sanno anche i bambini che nelle vie di tutte le città del mondo civilizzato i numeri pari stanno da un lato e i dispari dall’altro, quindi un palazzo non può avere una numerazione “ibrida”, a meno che non scavalchi la strada.
Tralascio di aggiungere altre inesattezze storiche e odonomastiche che ho incontrato nel testo, vi basti sapere che a un certo punto ho provato la stessa sensazione di quando si guarda un film di Hollywood ambientato a Venezia, una città fantomatica e impossibile da credere anche per chi c’è stato solamente una volta.
Peccato, se Chatwin si fosse accontentato di restare sempre un po’ sul vago, visto che si tratta di un’opera di fantasia e non di realtà storica romanzata, se avesse evitato sciorinare dettagli che nulla aggiungono alla qualità del testo, o se almeno qualcuno glielo avesse fatto notare prima della pubblicazione, il romanzo paradossalmente ne avrebbe guadagnato in veridicità, lasciando a chi legge la libertà di farsi affascinare dalla trama.
Chissà, forse è questo il formato attuale, la tendenza a inondare il lettore con informazioni non sempre verificabili, confidando sulla sua ignoranza e sulla sua fretta di arrivare all’ultima pagina per sapere chi è l’assassino.
Se così fosse è meglio che mi ritiri in buon ordine, e perciò torno a Guy de Maupassant, a Franz Kafka, a Émile Zola, a Michail Bulgàkov, a John Fante. Loro, almeno, non tradiscono mai.

 

* Il romanzo si intitola “Una formula per la libertà

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