1624 A.D.
– Tetka!
Quell’insulto colpì Šárka come un manrovescio e la fece ammutolire di colpo.
Strega, le avevano dato della strega, e questo solamente perché aveva voluto guardare sotto il primo strato di mele per scoprire quelle marce di sotto; i contadini facevano sempre i furbi, ma quel furfante, per chiamarsi innocente, non aveva esitato ad accusarla d’essere stata lei, con un maleficio, a rovinare la mercanzia.
Ci voleva poco per finire tra le grinfie dei gesuiti che avevano invaso Prah, quelli avevano le orecchie lunghe, sempre in cerca degli eretici e dei nemici di Cristo. Gli imperiali, che avevano storpiato il nome della sua città in Prag, non erano da meno per intransigenza e spietatezza, ma ciò che le fece particolarmente male non fu l’infamante accusa che quel vecchio contadino le aveva sputato in faccia, bensì il ricordo che l’epiteto plebeo aveva fatto emergere.
Quattordici anni prima lei era una bambina come tante, ossia come si poteva esser bambine in un paese dilaniato dal furore religioso, dalla fame, dalla guerra e dal tradimento. Aveva cinque fratelli, tutti più grandi di lei, tutti l’orgoglio di suo padre moravo, e forse proprio per questo motivo sua madre boema pretese per lei, l’unica femmina, un nome della sua terra.
Una sera d’autunno suo padre non tornò a casa; succedeva spesso, ma quella volta sua madre pianse. Il giorno seguente, all’imbrunire, gli avvenimenti presero a galoppare come in un incubo: prima vennero delle figure tutte vestite di nero e trascinarono via la madre; poco dopo giunse un carro coperto sul quale furono fatti salire Šárka e i suoi cinque fratelli. Mentre si allontanavano scorse un’ultima volta la loro vecchia casa, con la gente che entrava e faceva razzia delle misere suppellettili.
Quando cessarono il rumore di zoccoli e il cigolio delle ruote la fecero scendere nel cortile di un edificio grigio e cupo; due figure anziane vestite di nero si avvicinarono con l’aria di chi si trova a compiere un penoso dovere; scrutarono da capo a piedi i suoi fratelli, e alla fine esaminarono anche lei, ma quando disse con insistenza di chiamarsi Šárka la presero a nerbate sulle gambe e si promisero a vicenda che avrebbero trovato anche per lei un nome decente.
Un paio di giorni dopo fu svegliata che era quasi notte e condotta assieme ai suoi fratelli sul ponte di pietra, giusto in tempo per veder scendere dalla strada del castello una processione illuminata da fumiganti torce.
Šárka non era spaventata, tutto era così oscuro, e perciò nuovo, da stordirla. Quelle figure incappucciate salmodiavano in una lingua a lei sconosciuta, e l’effetto era quasi ipnotico.
Poi vide e sussultò: c’era sua madre là in mezzo.
Appariva e scompariva, circondata e seminascosta da quelle ombre. Quando le passarono accanto notò che era vestita di stracci, vecchi sacchi o roba del genere; e c’era dell’altro che la colpì, più per il fatto che le fosse quasi sfuggito quando invece era evidente: la testa era quasi nuda, i suoi lunghi capelli neri erano stati tagliati. Sua madre si trascinava a fatica, zoppicava, piegata dal peso di un grosso sasso che le avevano legato al polso. Quella pietra, sbozzata alla meno peggio, ogni tanto sbatteva dura sulla sua gamba, ma lei sembrava non avvedersene, come se avesse già superato la soglia oltre alla quale il dolore è la condizione naturale dell’esistenza.
La processione li superò, imboccò il ponte e tutti la seguirono in silenzio, lasciando il dominio dell’aria a quei canti lugubri, al rumore degli zoccoli di legno sulla pietra del ponte e allo sfrigolare delle torce. Il fumo non si alzava, formava una cappa sopra le loro teste, una nuvola greve e rossastra come quelle che si vedono nelle fucine, o nelle terrificanti illustrazioni dell’Inferno.
Quando quelle cupe figure giunsero all’altezza dell’arcata centrale si fermarono e, subito dopo, anche le litanie cessarono.
Sua madre venne sollevata di peso sul parapetto e lì trattenuta in piedi da due soldati del castello. Šárka allora si ricordò di una delle raccomandazioni che aveva ricevuto da lei, ossia di non salire mai sul parapetto del ponte giacché sarebbe potuta cadere di sotto. Siccome a quell’età aveva una cognizione vaga di cosa significhi morire, le veniva raccontato che se cadeva nel fiume non avrebbe mai più mangiato del pane, un’eventualità spaventosa a sufficienza per la bambina.
Ora era il suo turno di rammentare a sua madre quell’ammonimento, e così cominciò a farsi strada tra le gambe della gente per avvicinarsi di più a lei. Quando finalmente emerse dalla calca, la vista di sua madre, così disfatta, pesta e malferma, la spaventò, e lei rimase paralizzata, incapace di pronunciare anche una sola parola.
Per puro caso i loro sguardi si incrociarono e si scrutarono, quasi sorpresi, persino dubbiosi di riconoscersi in quella situazione assurda. Šárka non ricevette, come si aspettava, un sorriso, bensì una sola parola; probabilmente nemmeno la udì con chiarezza, ma fu capace di condensare l’espressione di sua madre e il movimento delle labbra tumefatte in un solo concetto: utekou!
Non sempre era stata ubbidiente, non sempre aveva compreso perché la stessero sgridando, non sempre era rimasta zitta, non sempre aveva capito sua madre, ma ora scattò in lei l’istinto di sopravvivenza che quell’unica parola aveva fatto emergere.
Anni dopo tornò spesso a chiedersi se non sarebbe scappata comunque.
Questo è un estratto del romanzo “Una formula per la libertà” scritto a quattro mani da Nadia Mogni e me.
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