Le verità di Pinocchio
Sesta puntata
Tutto quel trambusto non poteva però passare inosservato; c’erano quelli che si piantavano sull’uscio della bottega per star sicuri che il malfattore non tentasse d’entrarci, c’era chi scappava in casa per paura d’esser mezzo in mezzo, c’erano delle giovani servette che spalancavano la finestra e si sporgevano di fuori per soddisfare la loro curiosità, ma così tanto che rischiavano di cadere di sotto, e tutti partecipavano a quella comparsata aggiungendo a loro fantasia ingiurie, invocazioni, allarmi, richiami, maledizioni e anche qualche raro incitamento in favore del fuggitivo. Infine, come sempre succede quando in strada l’agitazione prende il sopravvento sulle normali attività, apparve l’imponente figura di un carabiniere, quest’ultimo ben deciso a spegnere sul nascere le velleità di chi stava disturbando il quieto vivere delle brave persone.
Pinocchio si ricordava bene di quando aveva inutilmente tentato di sfuggire alla cattura passando in mezzo alle gambe, perciò si risolse a non ripetere quell’esperimento, che magari si trattava dello stesso carabiniere già sull’avviso della possibilità di tale movimento. Giunto che fu a un passo da quella figura pronta ad abbrancarlo si chinò un poco e volse il capo verso destra, per poi rialzarsi di scatto e svicolare a sinistra. Il carabiniere che si era anche lui chinato da un lato per acciuffarlo restò sorpreso da quel guizzo inaspettato, e piegato com’era sulla schiena non fece in tempo a girarsi dall’altra parte, salvo tentare di acchiappare il fuggitivo stendendo il braccio destro quasi dietro alla schiena. Stavolta però non c’era un lungo naso di legno sul quale far presa, e la grande mano dell’uomo si chiuse sull’aria. L’unico risultato evidente che ottenne fu quello di sbilanciarsi a causa del brusco movimento e di cadere seduto sul selciato della via.
Questo fatto capovolse l’atteggiamento del pubblico presente in quanto quasi tutti erano rimasti affascinati dal balzo di Pinocchio, così si levò più di qualche risata, qualche commento ammirato, persino degli applausi ironici, e poi tutti tornarono alle loro faccende. La Volpe e il Gatto comunque non si vedevano più. Già lenti per conto loro, erano appena arrivati all’imbocco della via quand’era apparso il carabiniere, e a causa della loro non limpidissima coscienza si erano defilati per evitare di dover rispondere a domande che potevano rivelarsi scomode e compromettenti.
Pinocchio non si fermò per gustarsi l’insperato successo, ma continuò a correre e svoltò in una stretta laterale a destra sulla quale si affacciavano le parti meno nobili delle case, i piccoli magazzini, le stalle, le cantine a filo strada, con le vasche di raccolta dell’acqua piovana, le striminzite cataste di legna e un disordine di embrici scheggiati, mobiletti sbilenchi mangiati dai tarli, stie sporche di sterco di gallina, bruscole lasciate colpevolmente marcire e tutto un corollario di oggetti inutilizzabili che per inerzia o affetto non ci si decide mai a buttare.
Correva Pinocchio, e ogni tanto gettava uno sguardo alle sue spalle per assicurarsi che nessuno lo stesse ancora inseguendo, ma così facendo finì coll’incespicare a causa di una pietra che sporgeva di quasi mezza spanna dalla superficie grossolanamente battuta di quel viottolo. Sarebbe andato a finire lungo disteso se a mezzo del suo capitombolo non avesse incrociato la pancia di un asino che se ne stava tranquillamente legato accanto alla porta della sua stalla.
– Ahia! – esclamò Pinocchio.
– Accidenti a te, e bada dove metti i piedi! – esclamò l’asino nello stesso momento di quella zuccata.
– Non l’ho fatto apposta, scusa, e poi mi sa che mi son fatto più male io.
La bestia si rese immediatamente conto di aver commesso un errore giacché gli asini, di norma, non parlano, e anche quando lo fanno usano il dialetto asinino che è incomprensibile agli uomini, ma ormai il danno era fatto e si voltò con le orecchie basse per osservare la faccia di un ragazzino che sente un ciuco che parla invece di fare j-a, j-a e che per giunta gli risponde nello stesso dialetto. La sorpresa fu però del quadrupede quando gli parve evidente che per quel moccioso la faccenda fosse più che normale, quindi attese che quello si tirasse su per osservarlo per benino, e si può ben dire che il suo stupore superò di gran lunga quello iniziale. Già la voce era stata un indizio, ma furono gli occhi del ragazzino a essere rivelatori
– Pinocchio? – chiese l’asino. – E in codeste vesti. Che ci fai qui?
– No, eh, io stavo scappando da… – attaccò Pinocchio, per poi fermarsi di botto. – Un momento. Come fai a conoscermi?
– Ma sì, mi rammento di te, siamo arrivati assieme al Paese dei balocchi, io ero Mariolino.
– Perdonami, ma così come sei ora faccio fatica a ricordare com’eri.
– Anche tu sei diverso, non sei più un burattino di legno, però, non so dire come, ti ho riconosciuto lo stesso – disse il ciuco. – Ma dimmi, come mai non ti sei trasformato in asino anche tu?
Pinocchio dovette ammettere che anche lui era toccata quella sorte, e raccontò a Mariolino le sue disavventure da asino fino al momento in cui, grazie a un branco di pesci, riuscì a tornare burattino. Però non ebbe cuore di proseguire oltre quel punto, il finale di quella storia l’asinello ce l’aveva sotto gli occhi, e tanto bastava. Gli raccontò solamente dell’ultima volta che ebbe occasione di incontare Lucignolo, un povero ciuco in fin di vita.
– Te lo ricordi? L’ho visto un momento prima che spirasse, è riuscito solamente a dirmi il suo nome. M’è dispiaciuto per lui, era così giovane.
Quando Mariolino seppe della triste sorte del loro comune compagno di giochi non si scompose più di tanto, e anzi sbottò – Lucignolo era uno stupido e ha trovato il destino che s’era cercato!
Pinocchio non si aspettava una tale sentenza e restò stupefatto.
– Chiudi la bocca che ci entrano le mosche – gli disse Mariolino.
Gli spiegò che Lucignolo era un testone, sempre bastian contrario, e quando era costretto a far qualcosa la faceva con tanta rabbia e malavoglia che ci metteva il doppio della fatica. Già si immaginava che razza d’asino era stato.
In confidenza – gli sussurrò Mariolino, – la vita dell’asino non è tanto male.
Pinocchio saltò su.
– Ma come, saper leggere e scrivere, far di conto, andare dove si vuole quando si vuole son cose che non contano niente per te?
L’asino lo guardò con un misto di tenerezza e compassione, avvicinò il muso all’orecchio del ragazzino e gli raccontò come andavano veramente le cose.
– Vedi, il segreto è quello di fare bene la scena.
Gli spiegò che, come ciuco, era forte quanto cinque uomini ma non bisognava assolutamente darlo a vedere, tutt’altro. Con la schiena libera si poteva procedere allegramente, anche al piccolo trotto, per ore e ore. Ma quando si veniva caricati di un peso che era per l’asino l’equivalente del cappelluccio che Pinocchio aveva in testa, allora bisognava piegare un poco la schiena e le gambe. L’andatura diventava lenta e incerta, bisognava farsi venire i sudori, abbassare il muso quasi fino a terra, respirare affannosamente, insomma roba del genere. In quella maniera il padrone dell’asino si guardava bene dal caricarlo di altri pesi e, arrivati a destinazione, convinto che l’animale avesse duramente faticato lo premiava con dell’avena di prima scelta o con delle deliziose carrube.
Mariolino gli confidò che per la maggior parte del tempo un asino si riposava guardando gli uomini faticare.
– Ma un uomo è sempre il tuo padrone e devi fare quello che vuole lui – obiettò Pinocchio.
Al ciuco scappò un verso a metà tra il raglio e la risata.
– Bravo lui, proprio un bel padrone.
Sempre sogghignando gli confidò che un bel morso o un calcio ben piazzato toglievano a qualsiasi padrone la voglia di tormentare il suo asino. Il suo padrone poi, in quel momento le stava buscando sode di sopra dalla moglie perché lei lo riteneva un buono a nulla, e appena sceso quello sarebbe andato a ubriacarsi all’osteria. L’indomani mattina l’asino avrebbe rivisto il suo padrone stravolto, con le occhiaie fino al mento e lo stomaco di fuori che vomitava e pregava di morire.
– E per non parlare se uno sta male! – esclamò Mariolino.
Raccontò a Pinocchio che aveva visto dottori cavare il sangue ai malati con delle viscide bestiacce schifose, torturarli per frugarci dentro e toglierne dei pezzi, far bere loro a forza dei liquidi maleodoranti che facevano vomitare solo a sentirne l’odore. Se un infermo guariva era pura fortuna, che nemmeno i sani sarebbero sopravvissuti a quei trattamenti.
– Invece la bestia malata viene lasciata nella stalla a riposare finché si riprende, e se non succede si vede che era arrivata l’ora sua.
Pinocchio più lo ascoltava e più si convinceva che il suo amico forse non aveva tutti i torti, al punto che quasi rimpianse di non esser rimasto un asinello, però si ricordò del circo, della frusta, della pietra al collo, e anche del povero Lucignolo. Allora ebbe un brivido e si riscosse dissipando quelle immagini ammaliatrici.
– Ma non è giusto. Ti ricordi tutti quei bambini tramutati in asini? Avrebbero potuto diventare dei bravi dottori, o maestri, o abili artigiani – protestò Pinocchio.
– E quando mai! Sarebbero rimasti dei poveracci come i loro genitori, mezzadri, operai e contadini, perché così va il mondo.
Mariolino confessò che ancora serbava nel cuore il ricordo di quelle poche giornate nel Paese dei balocchi. Secondo lui quasi tutti i bambini si rendevano conto che entrando nel Paese dei balocchi sarebbero stati trasformati in ciuchini, però almeno avrebbero passato qualche un momento in lieta spensieratezza, una felicità che avrebbero pagata cara, ma avevano già capito che passava poca differenza tra un animale da soma con quattro gambe e uno con due gambe soltanto.
– Ma le loro mamme e i papà si saranno disperati per la loro scomparsa – ribattè Pinocchio.
A quel punto a Mariolino tacque per qualche secondo, gli si inumidirono i grandi occhi neri e infine sospirò.
– Se un bambino è felice con la mamma e il papà non ha bisogno di andare nel Paese dei balocchi.
E del resto aveva compreso che Postiglione non era così cattivo. Quell’uomo era felice di far divertire i fanciulli fino a farli piangere dal ridere. A Postiglione sarebbe piaciuto che i bambini rimanessero sempre bambini, e invece, giorno dopo giorno, li vedeva crescere e diventare asini. Allora si disperava, piangeva come un vitello, e alla fine scappava via in qualche paese per trovare altri bambini infelici da consolare e divertire.
– Ma così finiremmo per restare tutti asini – fu l’osservazione di Pinocchio.
– E con questo? – ribattè Mariolino.
– Non ci sarebbero tetti per ripararsi dalla pioggia.
– Beh…
– Non ci sarebbero coperte contro il freddo.
– Ma…
– Non ci sarebbero fienili pieni quando fuori non c’è un filo d’erba.
– Eh…
– Non avremmo un fuoco per scaldarci d’inverno.
– Oh…
– Insomma voi asini state bene perché solo perché ci sono gli uomini che pensano a tutto!
Mariolino non aveva niente da aggiungere, perciò li limitò a fissare il terreno rimuginando in silenzio su quel rimprovero. Pinocchio si pentì subito di essere stato così severo, in fondo chi era lui per giudicare gli altri? Temendo di aver offeso Mariolino prese a consolarlo, e non trovò niente di meglio che lamentarsi delle sue disavventure, tanto per fargli capire che nemmeno chi è bravo e buono ha la vita facile, fino alla faccenda delle medicine per Geppetto.
– Senti anch’io ho un problema, e sapresti forse dove potrei trovare cinque soldi per…
A sentirsi chiedere del denaro Mariolino non potè trattenersi dallo scoppiare a ridere, ma i suoni sincopati e quasi innaturali che uscirono dalla sua bocca asinina riuscirono solamente a spaventare Pinocchio, il quale pensò bene di andarsene velocemente senza nemmeno salutare. Mentre procedeva a passo svelto lungo il vicolo gli risuonava nelle orecchie quella strana risata, finché udì una porta sbattere con fragore, e a una filza di parolacce seguirono un colpo sordo e uno straziante raglio di dolore. Allora Pinocchio si mise a correre a gambe levate per sfuggire quei versi che gli ricordavano fin troppo bene un triste periodo della sua vita di burattino in corpo di ciuco.
Infine, non sapendo più dove andare, Pinocchio decise di tornarsene a casa.
434