Le verità di Pinocchio
Quarta puntata
I bambini si sa, proprio se non gli capita il mal di pancia o il mal di denti, dormono sempre come sassi, e non c’è pensiero che riesca a tenerli svegli. Così pure fece Pinocchio, ma al canto del gallo saltò su come una molla, e senza fare rumore per non svegliare il babbo prese quelle poche monete di rame che ancora stavano nel barattolo sopra la credenza e uscì di casa.
Arrivò davanti alla farmacia che era era ancora chiusa e dovette aspettare un bel po’, seduto sullo scalino della soglia, e guardava passare quelli che con passo veloce ma espressione poco felice si stavano recando al lavoro. A un certo momento, senza nessun preavviso, la porta d’ingresso si spalancò di botto verso l’interno, e Pinocchio che ci teneva appoggiata la schiena fu lì lì per cadere all’indietro e sbattere la testa sul pavimento. Si riprese all’ultimo e con un guizzo saltò giù dallo scalino per vedere chi gli aveva tirato quello scherzo birbone, con tutta l’intenzione di prenderlo a male parole, ma vedendo la figura che stava entro la cornice dell’ingresso si rese subito conto che probabilmente si trattava del padrone di quella casa, e della sua porta poteva farci quel che più gli garbava. E poi magari, intanto che aspettava, si era riappisolato e non aveva sentito girare la chiave nella serratura, o scorrere il catenaccio, perciò non c’era stata malizia in quel gesto.
Pinocchio non era mai stato in una farmacia, e né tanto meno sapeva come dovesse apparire un farmacista. Quel tipo alto e magro che gli si parava davanti, scialbo d’un pallore ceruleo che il lunghissimo camice nero metteva ancor più in risalto, un contrasto al quale davano man forte i capelli corvini impomatati a lucido, poteva forse essere un farmacista?
Bisognava sapere.
– Buongiorno, scusatemi, ma… per una medicina, a chi posso chiedere?
– A me, ragazzino, e a chi poi dunque?
Quindi, ne concluse sollevato Pinocchio, si trattava proprio del farmacista. Si chiese se eran fatti tutti così, vestiti come un ricco pizzicagnolo ma esangui come un morto di fame. Che fosse colpa del loro mestiere?
– Ecco, io avrei proprio bisogno di una medicina.
Il farmacista mise sulla faccia un sorriso a labbra tirate
– Bene, bene, bene, un cliente già di prima mattina, bene, bene, bene. Prego, da questa parte…
Pinocchio entrò e fu subito sommerso da una marea di odori più o meno sconosciuti. Tra l’altro, venendo dalla via che era in pieno sole, per più di qualche momento fece fatica a distinguere qualcosa in quell’ambiente meno luminoso e reso quasi cavernoso da un arredamento in legno scurissimo, perciò il naso e i piedi furono le uniche cose che lo tennero in contatto con quel nuovo ambiente.
In suo soccorso arrivò la voce del farmacista.
– Favoritemi la ricetta, prego.
Pinocchio seguì la direzione di quel suono fino ad arrivare al bancone, e solo allora iniziò a distinguere delle forme biancastre allineate sulle mensole alle pareti, una lucidissima bilancia sopra un tavolino, una réclame che rappresentava una stessa persona, prima dolorante e poi allegra, una coppia di paralumi a stelo, al momento spenti entrambi, e la faccia del farmacista che in tutta quella penombra pareva luminosa come la luna piena. Pinocchio s’alzò in punta di piedi gli consegnò la ricetta.
Il farmacista, sempre con quel suo sorriso disegnato con la matita, prese il foglietto con la massima cura, come se invece che di carta fosse fatto di porcellana finissima, lo avvicinò agli occhi e iniziò a leggere.
– Dunque, aggiungere dieci grammi di foglioline tritate di santonico, cinque grammi di resina di gialappa, dieci grammi di solfato di chinina e dieci grammi di sali di Karlsbad in duecento ci-ci di ricostituente. Bene, bene, bene, faranno… faranno… faranno… trenta soldi.
A sentire la cifra Pinocchio diventò bianco come certe polverine nelle boccette di vetro trasparente.
– Ecco, avrei per il momento solamente dieci soldi. Se potesse aspettare domani le assicuro che il mi’ babbo passa a pagare quello che manca. Sapete, il dottore ha detto che domani sarà guarito.
Il farmacista non mutò la sua espressione apparentemente bonaria e rispose: – Mi dispiace, non si fa credito.
Pinocchio si sentì avvampare, un po’ per la vergogna di non avere ciò che il farmacista chiedeva, ma soprattutto per la consapevolezza che senza la medicina erano guai, e che Geppetto, oltre che malato, sarebbe rimasto senza lavoro.
– Ma… ma… il babbo sta male… ha bisogno della medicina perché il capomastro ha detto…
– Mi dispiace, veramente.
Pinocchio comprese che quella faccia pallida come il frassino aveva una riserva inesauribile di “mi dispiace”, e che senza i trenta soldi non ci sarebbe stato verso di ottenere la medicina per il babbo. Si riprese allora la ricetta che il farmacista gli stava porgendo con ipocrita gentilezza e uscì in strada. Appena fuori l’aria frizzantina del mattino lo liberò da quella gabbia di odori strani e non sempre gradevoli della farmacia, e la luce del sole, così forte per contrasto con la penombra di prima, contribuì non poco a schiarirgli le idee. Decise che se quanto aveva in tasca non bastava allora avrebbe fatto in modo di arrivare a trenta soldi, e per farlo l’unica maniera accettabile era un lavoro. Ma quale lavoro?
Intanto che si avviava mestamente verso casa passò davanti alla bottega di Duccio, il verduraio, ma dietro al bancone non c’era nessuno. Gli parve un fatto strano, giacché, di solito, il padrone stava a chiamare la gente che passava e non la smetteva di decantare ad alta voce la freschezza e la bontà della sua merce. Pinocchio lo conosceva, andava sempre da lui a comprare le erbe per la ribollita, e gli venne la curiosità di sapere dove s’era cacciato Duccio. Lo trovò sul retro, affaccendato in un qualche lavoro accanto a pile di cassette di cavoli, broccoli e insalate da una parte, e una montagnola di foglie dall’altra. A dire il vero il massimo dell’impegno lo stava mettendo nel brontolare, contro qualcuno, contro sé stesso, contro la malasorte, ci si applicava con una dovizia di espressioni e versacci che denotavano una rimarchevole pratica.
– Buongiorno signor Duccio.
– Se questo giorno è buono, allora per gli altri che hanno da venire è meglio che mi butti al fiume! Che vuoi?
– No, niente, mi domando che fate qui dietro.
– Si parla del più e del meno con le verze…
– Sul serio?
– Certo che no, citrullo! Quel bischero del mio garzone s’è fatto male, e adesso tocca a me di pulirla la verdura. Proprio oggi che c’avrei altro da fare.
Pinocchio finse di riflettere per un poco, attese che l’uomo tirasse giù l’ultimo moccolo e poi disse tutto d’un fiato: – Se volete, questo lavoro ve lo faccio io per venti soldi.
Duccio lo squadrò per bene, poi guardò pensoso la pila di cassette. Più che la proposta di Pinocchio fu l’idea che qualcuno poteva levarlo da quell’incomodo a convincerlo.
– Sta bene, ora ti spiego cosa devi fare.
Gli mostrò come togliere le foglie ingiallite dai broccoli e dai cavoli, come accorciare il gambo scurito dell’insalata per farla sembrare appena colta, come spiumare i finocchi ammosciati e, tocco finale, come spruzzare con la mano delle gocce d’acqua sulle foglie per dare l’idea della rugiada.
Terminata la lezione, il verduraio non perse altro tempo, andò al banco sul davanti e attaccò con la solita solfa.
– Verdura fresca, verdura bella, verdura buona, non ce n’è di migliore! Donne, da Duccio la verdura speciale! Freschissima!
La mattinata era calda, perciò Pinocchio si ritrovò ben presto tutto sudato, però, quando si sentiva stanco, pensava al babbo malato a casa e alla medicina, così trovava nuove forze. All’una le cassette erano state tutte ripassate, e accanto a quelle s’alzava una piccola piramide di foglie, gambi e scorze. Pinocchio se ne stava seduto stanco morto su uno sgabello basso aspettando Duccio. Appena lo vide tese la mano aperta a metà tanto era indolenzita.
– Io ho finito, pagatemi, grazie.
L’uomo mise la mano in tasca e consegnò a Pinocchio due monete da cinque soldi.
– Ma avevamo detto venti soldi! – esclamò.
Duccio rispose che era stato troppo lento, che aveva ammaccato le verdure, che aveva tolto anche le foglie buone, che non aveva altri soldi, e insomma altre cose ancora. Aggiunse che, se voleva, poteva portarsi a casa qualcosa degli scarti, e glielo faceva pure passare come un favore.
– Ma avevamo detto venti soldi ! Venti!
Pinocchio si guardò in giro per cercare i testimoni di quell’accordo di qualche ora prima, ma ovunque guardasse non vedeva altro che facce incuriosite o addirittura divertite dalla possibilità di una assistere a uno spettacolo. Tornò a fissare l’uomo cercando di sembrare pronto a tutto, ma quello, con un’alzata di spalle, s’era già voltato per tornare al banco, e per buona misura aveva sbarrato il passaggio tra il banco e il magazzino
A Pinocchio rimase un momento a fissare quella porta, chiusa come per dire che anche il discorso era chiuso, perciò infilò le due monete in tasca, ingoiò l’amaro boccone della rabbia, si girò anche lui e uscì dal retro. Si mise sulla strada di casa camminando veloce, quasi volesse scappare da quella bruciante esperienza, a testa bassa e con la vista resa quasi cieca dalle lacrime che non riusciva a trattenere. Così continuava a incespicare e sbattere contro le persone, le colonne, gli angoli delle vie; per poco non finì sotto un cavallo, ma lui non se ne accorse nemmeno. A un certo punto andò a sbattere su una pancia prominente, e da quella spuntò un braccio che lo prese per la collottola
– Ma dove hai la testa ragazzino?
Pinocchio rispose quasi senza pensare: – I soldi… i venti soldi…
La pancia si mise a ridere.
– Soldi? Hai bisogno di soldi? Non ci sono problemi, guarda là!
Una mano paffuta con un sigaro acceso tra le dita gli indicò un’insegna sopra un portone di legno finemente lavorato: “Premiata società VEG – Moltiplichiamo i vostri soldi”.
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