Le verità di Pinocchio
Seconda puntata
Insomma, quando le cose vanno male possono sempre peggiorare, e infatti una mattina di Maggio, dopo una notte bagnata da una pioggerellina sottile sottile, a Geppetto mancò la forza di alzarsi. Se ne stava lì, seduto sulla sponda del pagliericcio, col camiciotto da notte che a malapena gli copriva le cosce magre, e collo zucchetto di lana ancora in testa. Dopo un po’ che era rimasto a guardarsi le gambe che si rifiutavano di sollevarlo si decise a chiamare aiuto.
Pinocchio era in cucina e si stava preparando per andare a scuola, ma appena sentita la voce di Geppetto accorse subito.
– Arrivo babbo!
Aprì la porta della camera, lentamente perché un cardine aveva le viti lente sul legno del vecchio stipite, e appena messa dentro la testa s’accorse subito che qualcosa non andava.
– O babbo, che avete, non vi sentite bene?
– Le gambe, le gambe, son diventate di legno.
– Ma no, babbo mio, lo so ben io che di legno le tenevo, le vostre son come le mie.
Geppetto non aveva forza di guardare in viso il suo figliolo, non voleva che lo vedesse piangere, e continuò a fissare i piedi nudi che gli parevano come incollati sul pavimento.
– Saranno pure come le tue, ma queste non sono mie, non mi ubbidiscono più.
– Ma che dite, pensate forse che le vostre ve l’hanno rubate stanotte? È solo un male di passaggio, che poi uscirà il sole e salterete su come una cavalletta.
Intanto che diceva questo, Pinocchio durava fatica per non mettersi a piangere anche lui. Aveva sempre visto Geppetto come una montagna, magari da girargli attorno o da salirci sopra, ma comunque una figura caparbia nell’affrontare qualsiasi difficoltà, e ora, di punto in bianco, lo scopriva debole e indifeso.
– Torno subito, babbo.
Andò in cucina e riavviò subito un bel fuoco nel camino, preparò un bricco di caffè forte e ci versò dentro il resto del latte che s’era preparato per colazione. Poi corse al forno a comprare 2 soldi di pane bianco ancora caldo e rientrò subito a casa.
Dovete sapere che Pinocchio aveva mantenuto la promessa di essere buono e che, a parte qualche occasionale e più che naturale marachella, aveva dimostrato buona volontà e carattere gentile, non marinava più la scuola e non frequentava la cattive compagnie. Perciò appena rientrato casa si fece in quattro per preparare una colazione nutriente per Geppetto con quel poco che c’era nella dispensa, quindi rimise il babbo a letto, gli rimboccò ben bene la coperta e lo rassicurò dicendogli che avrebbe pensato a tutto lui.
Nel dir questo s’impettì come un galletto per sembrar più grande agli occhi di Geppetto, e anche per darsi un po’ di coraggio.
Per prima cosa andò alla fabbrica, e all’ingresso chiese di parlare al capomastro. Per fortuna quello era nei paraggi e gli indicarono un omaccione con una lunga palandrana nera. Pinocchio lo intravvedeva a fatica tra le nuvole di polverino da segatura, e più che degli occhi dovette fidarsi delle orecchie, in quanto il Capomastro era intento a dirigere con voce tonante lo scarico di un carico di assi piallate.
Pinocchio, dopo aver schivato una testata contro una tavola sporgente ed evitato di cadere in una fossa piena di trucioli e bugie, si avvicinò a una persona grande e grossa, una figura che incuteva un certo timore anche a causa del suo camice nero al ginocchio, inspiegabilmente nero in mezzo a tutta quella neve di legno. Spiegò, col dovuto rispetto come gli era stato insegnato, che il suo babbo Geppetto s’era ammalato e che per quel giorno non sarebbe venuto a lavorare.
Con lo stesso tono di voce che aveva usato per dirigere le operazioni scarico il capomastro gli rispose che di fannulloni che venivano a lavorare un giorno sì e uno no ne aveva piene le tasche, e che l’indomani, sempre se il “signor Geppetto” avesse loro concesso la buona grazia di presentarsi al lavoro, avrebbe avuto da fare anche il lavoro che sarebbe rimasto indietro a causa della sua “malattia”.
Detto ciò si voltò per urlare qualcosa a un altro malcapitato e non rivolse più alcuna attenzione al bambino che pure gli stava accanto. Sentendosi di fatto congedato, Pinocchio ringraziò e salutò educatamente, anche se durante l’incontro col capomastro, durato non più di mezzo minuto, avesse udito uscire da quella bocca una dozzina di volgarità tra parolacce e ingiurie rivolte a ogni lavorante che passava di là.
Uscito dalla fabbrica corse di filato a scuola, dove, trafelato, dovette scusarsi con l’accigliato maestro per “l’ingiustificato ed ingiustificabile” ritardo. Per tutta la mattinata stette a scuola come fosse seduto su un nido di formiche rosse, e appena suonò la campanella corse a perdifiato fino a casa.
Lì trovò il babbo che, nel testardo tentativo di alzarsi, era caduto e s’era procurato un bel taglio sulla gamba. Geppetto, demoralizzato dall’insuccesso, era rimasto seduto sul pavimento tutta la mattina con addosso solo la copertina tirata giù dal pagliericcio. Per un punto d’onore era però riuscito a calcarsi in testa la parrucca che teneva sul comodino, alla carlona però, sbagliando il davanti col dietro, ma era talmente sconvolto che nemmeno se ne accorse.
Come raffica di vento tra le foglie d’autunno, così quella visione spazzò via in un amen tutta la baldanza e il coraggio di Pinocchio. Aiutò il povero babbo a sdraiarsi di nuovo sul pagliericcio e poi uscì precipitosamente dalla camera per andare a piangere nella legnaia, seduto sui ciocchi.
Ma a Pinocchio le avversità della sua vita precedente di burattino avevano insegnato che disperarsi non serve a niente, perciò si rizzò in piedi, tirò su col naso e uscì.
La strada nel primo pomeriggio era silenziosa e finalmente piena di sole. Per un po’ si mise a passeggiare piano in su e in giù per tentare di riordinare le idee nella sua testolina confusa. Cosa si fa quando una persona è malata? Ma certo! Si chiama il dottore!
Dandosi dello stupido per non averci pensato subito s’incamminò risolutamente, fermandosi però dopo pochi passi in quanto egli non sapeva “dove” trovare un dottore. Cominciò allora così a bussare a ogni porta chiedendo di un dottore.
Toc, toc. – Scusate, c’è un dottore qui?
– No, non c’è.
Toc, toc. – Scusate, c’è un dottore qui?
– Che vuoi? Vai via!
Toc, toc. – Scusate, c’è un dottore qui?
– Eh, bellino il mio nini, se ci fosse saremmo ricchi.
Toc, toc. – Scusate, c’è un dottore qui?
– No, però per ischerzo te lo posso fa’.
Toc, toc. – Scusate, c’è un dottore qui?
– Ma va a giocare da qualche altra parte!
Toc, toc – Scusate, c’è un dottore qui?
– Non c’è, non c’è, non c’è, non c’è…
Infine, per pura fortuna, bussò alla porta di un vero dottore, e questi era giusto in casa. Si trattava di tipo sulla cinquantina, piccolo in altezza ma abbondante in larghezza, quasi calvo, e con un affettato pizzetto sale e pepe a punta sul mento. Pinocchio era talmente stanco che non aveva più voce per parlare, e quando il dottore gli chiese delle spiegazioni si limitò a afferrarlo per la manica della camicia e a trascinarlo fuori in strada senza giacca e cappello. Per fortuna, prima di uscire, il dottore ce la fece ad afferrare la sua borsa che teneva sempre pronta accanto all’ingresso.
Quel pomeriggio gli abitanti del villaggio videro uno strano spettacolo, un bambino che trascinava a viva forza per la manica un medico stralunato e riottoso, il quale borbottava in continuazione come una pentola sul fuoco. Pareva un cagnolino che tirasse un carro di fieno.
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