La pietra sulla quale sono seduto è calda, piacevolmente calda; i piedi nudi sono immersi nell’acqua, fredda, ancora troppo fredda per fare il bagno. Non è ancora estate, ma già se ne avvertono le premesse, e con quelle la promessa di radiose giornate senza fine.
Il gelato che tengo in mano si sta consumando rapidamente, sulla lingua, nella bocca, e anche giù per il polso, fino al gomito; all’inizio era più saporito, e già vedo spuntare il bastoncino di legno.
L’acqua mi sale e scende lungo le caviglie, è tentatrice, ma il freddo pizzica un po’ le gambe quando giunge a riva un’onda più alta. Sciaff, ecco che il mare spruzza sulla superficie dello scoglio una pioggia di piccole gocce che svaniscono quasi subito, e poi l’onda scappa via, torna indietro, quasi a volersi nascondere tra le altre dopo quello scherzetto.
Ho finito il gelato, e allora guardo il mare, ascolto il mare, annuso il mare. Lo vedo, ma non lo capisco: è strana questa sua agitazione, si alza e si abbassa, di continuo, ma non si muove mai, è sempre qua; ogni tanto una bava più tesa soffia sulla sua superficie, gli fa venire la pelle d’oca, e una macchia più scura fatta di piccolissime onde sulle onde scappa via col vento. Non so se gli sono indifferente o se mi sta dicendo qualcosa: la sua voce è monotona e mai uguale, dentro c’è di tutto, parole, suoni, rumori, misteri. Sotto stanno marcendo delle alghe, ne percepisco l’odore intenso e pungente, mi entra nel naso, nel corpo, nella memoria: impossibile confonderlo. Sciaff.
Una risata alle mie spalle. Mi volto. Dietro a me c’è un breve tratto erboso, e poi degli alberi con alte chiome fitte di lunghi aghi verdi. Tutti gli alberi hanno il tronco inclinato dal vento nella stessa direzione. Una fantasia infinita mi permette di immaginare che loro sono verticali su una strada in salita, e magari anche il mare è in salita. Lo sguardo corre da un punto all’altro del boschetto e scorgo due biciclette, un uomo e una donna, eccoli che passano seminascosti da un filare di tronchi, e poi ecco una bambina su una bicicletta più piccola che li supera, e ride, di nuovo. Come vorrei anch’io una bicicletta per poter ridere così!
Sono passati, e allora io torno a guardare il mare.
Un uccello scuro se ne sta sulla sua superficie, a distanza, galleggia come un turacciolo, e poi di colpo, quasi senza lasciare un’increspatura, va giù. Aspetto e lo cerco, aspetto, aspetto. Ma era un uccello o un pesce? Eccolo di nuovo, ancora più distante, che scuote energicamente la sua piccola testa dal lungo becco, come a volersi svegliare da quel lungo viaggio subacqueo, e torna a galleggiare seguendo l’altalena delle onde.
Guardo giù i piccoli pesci che nuotano attorno ai miei piedi; non hanno paura, non mi fanno paura, e nemmeno di quelli più grandi ho paura, quelli lunghi come la mia mano.
Due barche sono ferme un po’ più lontano dalla riva, ma abbastanza vicine da distingure la catena che scende nell’acqua e che impedisce loro di andarsene. La vela non c’è, non sono barche di pescatori, sono troppo chiare, troppo alte, troppo vuote, troppo silenziose.
Un uccello passa veloce sopra la mia testa, si allontana ondeggiando nell’aria, le grandi ali quasi immobili, prima bianche, poi nere controsole. Vola lontano e non riesco più a seguirlo.
Poco più in là, su un pezzo di spiaggia tra gli scogli, due coppie di persone si stanno incrociando, parlano, si salutano, si allontanano. Fisso le ombre che camminano sulla spiaggia assieme a loro; anche quelle si sono incrociate, ma non si sono confuse, si sono capite al volo anche senza parlarsi; magari sono più intelligenti di noi. Non so perché, ma sono affascinato da quelle ombre, sono diverse, scure come non mai, quasi nere, mentre attorno a loro è tutto così chiaro. Qualcuno ora sta gridando.
Guardo su e mi accorgo che tutto il cielo è diventato sole. Mi ricordo che un tempo fui sgridato – Non guardare il sole! Non guardare il sole! – E allora chiudo gli occhi e, per buona misura, mi copro il viso con le mani. Non voglio essere sgridato ancora.
Aspetto, aspetto, e aspetto ancora, come aspettavo che quell’uccello-pesce uscisse dall’acqua. Apro piano le dita delle mani; nero il colore che vedo con gli occhi ancora chiusi, il rosso di prima non c’è più; allora guardo.
I miei piedi non sono più nell’acqua, il mare non c’è, se n’è andato, spaventato da tutta quella luce. Al suo posto una valle scura con delle scalinate scoscese e irregolari, adatte solamente a dei giganti. Il mondo si è diviso in due parti, quella di sopra, verde e azzurra, chiara, rumorosa (chi grida in questa maniera?), e quella di sotto, rotta, buia, silenziosa da far male alle orecchie. Tutto si perde in lontananza, nascosto da una specie di foschia grigia, impenetrabile, come le nuvole in autunno.
Lo scoglio adesso si muove, come il mare, si agita ma non va da nessuna parte; è come star seduti in automobile quando si percorre una carrareccia. Anche il mio stomaco si agita adesso, scosso da un rumore che arriva da tutte le parti, un tuono che non smette mai, un treno di mille vagoni. Mi tappo le orecchie per non sentire, ma non serve a niente, trova sempre la strada per entrare, attraverso la bocca, il naso, la pelle; mi riempie talmente che ho paura di scoppiare come un palloncino.
Cala. E’ finito. Finalmente.
Mi chiedo dov’è andato a finire il mare, non può sparire così. Nella pentola ci vogliono ore per far andar via tutta l’acqua, e serve anche il fuoco, perché la luce e il rumore non bastano. Tornerà, ne sono sicuro, prima o poi tornerà, è solamente questione di aspettare, di avere pazienza, come per l’uccello-pesce.
Al posto dei sottili refoli di brezza ora è arrivato un vento, prima leggero, poi sempre più forte, costante, dalla parte dell’orizzonte, e col vento la puzza, non l’odore del mare, ma un tanfo di pesce marcio, di gomma bruciata, di rancido, di gas, di fogna, fetori sovrapposti ma non mischiati, con l’uno che rinforza l’altro.
Il mare sta tornando, ma non lo riconosco più, è una mandria impazzita che mi si avventa contro, compatta, fragorosa, inarrestabile, ed è grande, alto, come le case di città. In alto, sul bordo di quel muro d’acqua si alzano fumi di vapore e fulmini; neanche riesco a distinguerne i boati, sono continui e sono coperti da un urlo possente: è la voce dell’acqua e ne avverto il fiato puzzolente e infinito.
Eccola, ormai è vicina, è pietra liquida che ha nella pancia di tutto, navi, case, persone, biciclette.
Eccola, mi è sopra, è alta come un palazzo. Non è più grigia, è nera, notte liquida, e sotto è rossa, accesa, fuoco liquido che tutto distruggerà.
Eccola, mi è dentro, e io divento acqua, fuoco, fumo, niente. Apro la bocca per gridare la mia paura, ma è piena di pesci morti, di alghe puzzolenti, di sabbia umida e compatta, di cocci di vetro, di conchiglie vuote, di catrame asciutto, di sale indurito che mi brucia la gola. Affondo, come una pietra, chilometri di mare sopra di me, chilometri di melma nera, sopra un mantello di granchi grigi che aspettano solo di cancellarmi. I polmoni vorrebbero respirare acqua. Il cuore vorrebbe uscirmi dal petto.
– Aaaaaaaar!
Sono arrivato. Tocco la superficie con la mano: gomma. Tengo gli occhi chiusi; non voglio ancora vedere; però mi tocca sentire, e subire.
– Eccolo qua il nostro campione! E’ caduto dalla cuccetta, come al solito. Ben svegliato!
Conosco questa voce, so di chi è, ma non me la sento di rispondere, non ancora, e lo so dove sono, dove sono ora; di sicuro non sono al mare.
– Allora bello, come va? Ancora il solito incubo?
– Sì, ma non…
Un’altra voce, meno vicina, ma anch’essa familiare, è ancora più aspra.
– Senti vecchio, non ce ne frega niente dei tuoi incubi. Alzati che c’è del lavoro da fare.
Apro gli occhi e alla luce verdastra delle lampade bioluminescenti guardo i miei tre compagni di cella, perché questo è, la cella di un penitenziario senza secondini e reticolati, senza innocenti o colpevoli, tutti comunque condannati all’ergastolo senza processo, una prigione dalla quale nessuno si sognerebbe di evadere. Le pareti di acciaio verniciate sommariamente di grigio chiaro, il pavimento ricoperto di nera gomma antisdrucciolo, le quattro cuccette appese alle pareti, il puzzo di chiuso e di riciclato danno proprio il sapore di “cella” all’ambiente dove ci troviamo.
Mi metto a sedere, lentamente, e il ragazzo in tuta da lavoro blu mi fissa sardonico dalla sua cuccetta in alto.
– Ehi vecchio, quando la smetterai di sognare? Lo sai che stai veramente rompendo con le tue fantasie?
Mi volto verso di lui – Non… non sono fantasie… sono ricordi.
– Seeee, ricordi, e come no! Ma se non ti ricordi più nemmeno dove hai posato il culo ieri…
Qualche risata di scherno sottolinea la pochezza di quella battuta.
Quello più vicino a me si china, avvicina il suo volto al mio, sento il suo fiato, la sua digestione pesante, il suo disprezzo.
– Ricordi? E quali ricordi vecchio? Perché non ce li racconti? Hai visto mai che ci facciamo quattro risate tutti assieme. Eh? Perché?
– Io non riesco a descriverli, sono confusi, mischiati ecco, ve l’ho già detto. Però li sogno.
– Balle! Tu non ricordi un accidente. Avevi cinque anni quando è scoppiato il casino, e con tutto quello che è successo dopo era già tanto se ricordavi il tuo nome.
Non mi va di sprecare il poco fiato che mi resta per cercare di convincerli. Nessuno di loro ha visto, nessuno di loro ha provato, nessuno di loro ha goduto, sono troppo giovani per sapere, e io ho passato ormai troppi anni nella bolla per ricordare.
– Non fa niente, scusatemi.
Mi rialzo, allungo il braccio verso le mensole sulla parete, mi verso un po’ di metacereali nella ciotola e li ammollo con liquido vitaminico.
– Piano vecchio, quello ci deve durare per tutta la settimana, e mi sa che tu consumi troppa acqua!
– I meta sono duri, lo sapete, e io ormai ho pochi denti buoni…
– Già sentita questa, inventane un’altra per fregarci le vitamine.
Evito di rispondere, mi siedo sulla cuccetta e mangio.
Il capo ha comunque deciso che che nemmeno mangiare in pace mi è concesso – E quando hai finito di rimpinzarti c’è da andare su, sopra le vasche, immediatamente, a pulire i filtri UV, sono di nuovo coperti di cenere. I sensori hanno segnalato che la sezione cinque non riceve abbastanza luce.
– Perché sempre io?
– Perché qualcuno lo deve fare quel lavoro! O forse preferisci che dica a un migliaio di persone che domani non si mangia a causa dei tuoi capricci? Ti rendi conto o no che ormai sei una zavorra?
– Ok, vado… ci vado. Almeno l’avete riparata la tuta antiradiazioni?
E’ il giovanotto di prima che mi risponde al volo, con orgoglio. – Certamente, l’ho riparata io, personalmente.
Sospiro penosamente.
– Speriamo bene. L’ultima volta mi si è scucita proprio mente stavo rientrando, e non vorrei che…
– Senti vecchio, poche storie, io l’ho riparata con quello che mi danno. Se non ti va di andare puoi sempre buttarti un una vasca e farti riciclare, come hanno già fatto tante altre mummie del tuo stampo!
Ormai sono abituato alle angherie, ma questa frase mi ferisce, non per la crudeltà della scelta, ma per l’azione che evoca, un riflesso di qualcosa che dovrei ricordare, cose da bambini, bambini di allora, non quelli di adesso, nati in provetta e cresciuti in incubatrici sterili.
Ricordo, sì ora ricordo, un’immagine, un vecchio senza capelli e colla pelle tutta a macchie, chino sulla riva intento a rimestare nell’acqua fetida e opaca per cercare qualcosa da mangiare, e mi parlava e piangeva – Non dovevano cominciare… non dovevamo rispondere… guarda che schifo… io ero un pescatore, e adesso guarda com’è dove una volta era tutto mare… un mare così chiaro…
Ricordo, quasi tutto, il sogno e il ricordo.
Lascio cadere la ciotola e sputo la pappa insipida che da un po’ stavo rigirando in bocca. Mi alzo e imbocco deciso il lungo corridoio in penombra, mentre qualcuno dalla cella mi chiama con un tono che sa di scherno, ma anche di sorpresa.
– Ehi vecchio, sei impazzito, dove vai?
Mi volto e, per una volta, l’ultima volta, la mia voce è più sicura della loro – Mi avete rotto, andate a farvi fottere, tutti quanti. Adesso io esco da questo buco e torno a fare quello che facevo prima, vado a prendere il sole.
– Morirai!
– Forse sì, forse io morirò, ma voi no, voi non morirete perché non siete mai stati vivi, nessuno lo è più da quella volta che ci riducemmo a diventare i vermi di questo pianeta in decomposizione, ma lui almeno avrà me, per sempre.
Nessuno sta cercando di fermarmi. Arrivo fino al boccaporto principale e lo spalanco, mentre tutti sono già scappati in fondo alle loro gallerie.
Quanta luce!
ULTIME LUNE
Vanitas vanitatum et omnia vanitas
durissima …
Lo specchio fedele del mio inguaribile ottimismo.