Attenzione, questo post non parla di arredamento, e nemmeno tocca il drammatico problema della sovrappopolazione, e men che meno andrà a valutare la capacità di carico di un autoveicolo.
Si parlerà di libri.
A onor del vero devo confessarvi che la quantità di libri in mio possesso crea ogni tanto qualche complicazione abitativa, però non è mia intenzione coinvolgervi in tale problematica, in quanto di ben altro spazio intendo trattare.
Dovete sapere che quella lapidaria constatazione espressa nel titolo è dovuta inizialmente a un problema di punteggiatura, sì, avete letto bene, dell’uso delle virgole, dei punti e virgola, dei puntini di sospensione, due punti, e tutto il resto di segni convenzionali in uso e disuso nella scrittura.
Si dà il (malaugurato) caso che mi sia impegnato nella rielaborazione di un testo più esteso di quanto io sia abituato, uno scritto che nelle intenzioni dovrebbe prendere forma e rango di “romanzo”. Fermo restando il proposito di dare alla luce un libro privo di supponenza letteraria, restava l’obbligo di far verificare se quando stava scritto stava anche in piedi, ovvero se fossi in grado di presentare al pubblico un testo di livello accettabile, e magari pure godibile.
Il risultato è stato interlocutorio, nel senso che la trama è stata abbastanza convincente, non sono stati intercettati troppi errori, ma…
Ecco, quel “ma” è il frutto avvelenato della mia scarsa formazione umanistica di base, un aspetto che di norma affligge chi esce da studi tecnici, tanto più se la sua lingua d’uso comune non è l’italiano formale, bensì un ben radicato dialetto.
Avrei potuto vivere una vita soddisfacente anche affidandomi unicamente all’indicativo presente, al passato prossimo, al futuro semplice, al participio passato, ma la passione per la lettura che coltivo fin da piccolo (ob torto collo a causa di una salute cagionevole) mi ha infuso coraggio e ho affrontato testi sempre più impegnativi, fino a restarne abbagliato, soggiogato, quasi plagiato.
Sia l’avatar e sia il testo presenti nella pagina “Lunatico” di questo blog spiegano molto di me, e di come io mi ritenga “diversamente incolto”.
Insomma, per farla breve, è saltato fuori che la mia maniera di esporre un testo (non mi arrischio a definirla uno stile) è superata, zeppa di una punteggiatura che forse sarebbe andata bene per Zola, per Maupassant, per Musil (mi rendo conto che non sono degno nemmeno di scriverli quei nomi), ma non per un romanzo del ventunesimo secolo.
Che fare? (Lenin mi perdoni se ho sfruttato il titolo di un suo scritto, ma del resto anche lui l’ha copiato da Černyševskij).
Come sempre ho scelto la strada più lunga, anche perché prometteva di essere divertente, e così ho iniziato a leggere dei libri che hanno meno della metà dei miei anni.
Un incubo.
Proust, Gončarov, Valéry, Serao, Mann, Kafka, tanto per dire qualcuno, non mi hanno mai creato eccessivi problemi, era sufficiente dare a tutti loro il tempo di spiegarsi, ma continuo a incontrare considerevoli difficoltà nella lettura dei blockbuster odierni. Pur avendo quasi immediatamente compreso l’inattualità della mia punteggiatura, mi trovo a disagio con le inevitabili anfibologie che la parsimonia della stessa comporta. Qualche autore ha saggiamente deciso di tagliare corto, ossia si riduce a sequenziare il testo mediante periodi molto brevi, procedendo spedito a passo di marcia.
Dopo qualche mese ho ricevuto dal cielo, che poi sarebbe l’abat-jour sopra il mio capo, l’illuminazione che andavo cercando tra quelle pagine di successo.
In buona sostanza il lettore medio è scarsamente interessato allo stile, alla forma, al ritmo, alla ricerca di un lessico adeguato, alle capacità descrittive, al realismo dei dialoghi, al non detto che rimane sottotraccia e che bisogna scoprire, no, niente di tutto questo. Ciò che veramente conta è arrivare a scoprire chi è l’assassino.
Anche se l’ho buttata lì così, piuttosto grezza, secondo me tale situazione fa parte del paradigma dello stile di vita attuale, secondo il quale è obbligatorio bruciare le tappe per arrivare subito al traguardo, e guai a fermarsi un attimo per ammirare il paesaggio.
Badate che questa mia osservazione non porta con sé una critica verso gli autori, non ne ho l’autorità e nemmeno la necessaria capacità di analisi. Ho incontrato trame complesse e coerenti, idee originali, soluzioni brillanti, vette narrative a me inaccessibili, però resto abbastanza convinto che tutte quelle righe si fonderanno in un’unica confusa immagine della quale ricorderò, forse, qualche titolo.
Ritengo abbastanza probabile che, almeno per le pubblicazioni popolari, siano gli stessi editori a imporre un taglio letterario leggero, fruibile, ammantato di novità, seducente. È il mercato bellezza.
Giunti a questo punto potrebbe capitare che qualche lettore si chieda che c’azzecca questa filippica con i problemi di spazio.
Ve lo dico subito: quasi niente.
Il “quasi” è giustificato da un ardito ponte che collega i libri con il cinema.
Capita ogni tanto che io passi qualche oretta in compagnia di un film “leggero”, giusto per lasciar riposare un po’ il mio sciagurato cervello, anche se in quelle occasioni può succedere che dia in escandescenze di fronte a pacchiani errori di plot, veri e propri sfondoni, fotografia stucchevole e interpretazione degna di una recita scolastica, ma quello passa il convento, e cerco di adeguarmi. Non starò qui a raccontarvi quale sia il tipo di cinema che preferisco, ci vorrebbero troppe parole per spiegarlo e troppa pazienza per sopportarlo, mi limiterò a citare alcuni titoli, giusto affinché sappiate a quale sorte siete scampati: Tangerines, Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’Oriente, Rashomon, Americani, Il gusto degli altri, Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, basta, ossia immagino che possa bastare.
Torniamo al punto, ai film di svago. Tra quelli possono anche capitare dei prodotti di genere fantascientifico, anche se, come presto capirete, è assai arduo che riescano a offrirmi qualche emozione al di fuori della forma spettacolare. Il motivo è presto detto, in quanto può succedere che io abbia già letto il racconto o il romanzo dal quale è stato tratto più o meno liberamente il film, e i risultati non sono quai mai esaltanti.
Per carità cristiana vi risparmio un elenco completo, però mi riservo il diritto di suscitare scandalo citando qualche titolo famoso, produzioni di successo che, secondo me, non rendono giustizia al testo scritto.
– Il pianeta delle scimmie
– 2001: Odissea nello spazio
– L’uomo bicentenario
– Arrival
– Fahrenheit 451 (il secondo peggio del primo)
– Guida galattica per gli autostoppisti
– Minority Report
ecc.
Ricordo che avevo forse dieci, undici anni quando incontrai la fantascienza, e ben presto quella diede il benservito alla letteratura per ragazzi, diventando il mio genere preferito, almeno fino alla scoperta di “Caballero”, e comunque per più di un decennio continuai a procacciarmi i bianchi tascabili di quella famosa collana edita da Mondadori, diventando, per ristrettezza di mezzi economici, un assiduo frequentatore delle bancarelle di libri usati.
Di acqua ne è passata sotto i ponti da allora, ma, dovendomi aggiornare sullo stile di scrittura attualmente in voga, trovai logico prendere in considerazione anche i racconti di fantascienza, in quanto tale genere deve essere accessibile a una vasta platea di lettori, e inoltre i temi trattati vanno a braccetto con forme espressive più che moderne, direi quasi sperimentali, a dispetto della scarsa considerazione nella quale vengono talvolta tenuti tali scritti dal mondo letterario classico.
Per essere certo di non venire fuorviato da traduzioni approssimative mi rivolsi a un periodico che pubblica quasi sempre testi di autori italiani, e così ebbi modo di farmi un’idea di come sia declinata la fantascienza nel 2020.
In piccolo.
L’intimismo dilaga, le distopie sociali si sprecano, i paradossi temporali sono ricorrenti, la vita di tutti i giorni irrompe pedestre, gli alieni sono stati scacciati dall’alienazione, i sogni muoiono nell’indifferenza.
Colto dal dubbio che la memoria mi tradisse, andai allora a rovistare tra le reliquie della mia gioventù, tra quei duecento e più volumetti di romanzi, raccolte, antologie, classici e collezioni, i soli superstiti di un esercito molto più grande che per anni sfilò in parata davanti ai miei occhi, a pagine allineate e compatte.
Vi ho ripescato viaggi interminabili, mondi improbabili e inesplorati, contatti e conflitti con alieni mai immaginati prima, naufragi catastrofici e irrimediabili, fughe nel futuro e fughe dal futuro, macchine meravigliose e terribili, vite avventurose e avventure dall’esito vitale, speranza e paura, successo e sconfitta, miseria e redenzione, utopia e apocalisse, e tutto avveniva in uno spazio che superava ogni dimensione nota, sia nella misura che nel numero.
Ho avuto tempo e modo per riflettere sui motivi dell’attuale regressione dimensionale, e sono giunto alla conclusione che dobbiamo questa timidezza alle disillusioni che il progresso scientifico porta con sé.
Siamo andati sulla Luna, solo per scoprire che è una lapide sferica. Sappiamo già abbastanza di Marte, e del fatto che sia refrattario a ogni forma di vita molto più complessa di un batterio. Il resto del nostro sistema, seppur affascinante, offre un’immagine alquanto distante dalle romanticherie della prima metà del 900. Allo stato attuale sarebbe più facile per un’aringa raggiungere la vetta dell’Everest che per noi arrivare a un altro sistema planetario extrasolare. Dal cosmo potrebbero sì scendere navi spaziali, me è molto più probabile che arrivi un meteorite distruttivo o una letale doccia di radiazioni ionizzanti, e perciò lo si osserva con timore
Il progresso non ci ha portato le astronavi a curvatura, il teletrasporto, i viaggi nel tempo, l’antigravità, bensì il consumismo, l’inquinamento, la bomba demografica e la paura nucleare. Aspettavamo, temevamo, lo sbarco degli alieni, ma al loro posto sono sbarcati gli immigrati irregolari, e capita che si lotti per tenere lontani i secondi non meno aspramente dei primi.
Trovo abbastanza logico che di fronte a tale sfacelo dell’illusione lo scrittore tema di volare troppo in alto, e mi chiedo chi sarebbe così ardito da tessere delle trame basate su ipotesi scientifiche di fantasia, rischiando di essere sbertucciato da esperti adeguatamente provvisti di laurea ma carenti di ogni immaginazione fin dall’infanzia. Come scrivere di viaggi interstellari se già salire su un aeroplano è diventata oggi una procedura complicatissima per qualsiasi passeggero? E tutte quelle stelle in cielo? Anche se fossimo in possesso della tecnologia per raggiungerle in tempi ragionevoli, forse non le troveremo più, o non più lì; troppo tempo è passato da quando ci hanno inviato il loro messaggio luminoso, e la relatività ristretta non ammette deroghe.
Così capita troppo spesso di distogliere lo sguardo dalla volta celeste per tornare a guardare le pareti della nostra caverna rivoltata. Tracciamo su quelle alcune opere d’arte, un messaggio che ci consoli e che offra l’illusione di fragile immortalità a dei pesciolini rossi che nuotano in una boccia d’acqua ogni giorno più torbida.
350 milioni di anni fa un pesce più curioso degli altri scoprì che la fine del mare non era la fine dell’universo, vide un cielo, un sole, e di notte una luna e le stelle. Non comprese, ma si adattò. Di quello stesso universo extraterrestre noi ne sappiamo ancora troppo poco, ma l’amara constatazione che le mirabolanti scoperte sono molto di là da venire non dovrebbe essere una buona scusa per smettere di guardare il cielo, di guardare al cielo. Avrebbe poco senso tornare nell’acqua, perché quella è, e non ce n’è una goccia di più, mentre fuori esiste lo spazio, e c’è tanto spazio.
Se è vero che, come scriveva Shakespeare, l’uomo è fatto della materia di cui son fatti i sogni, anche l’umanità stessa, se vuole continuare a esistere come tale, non deve lasciar morire i sogni, e quelli non si trovano in una cassaforte o su un trono, bensì dove ancora non siamo giunti e dove dobbiamo tornare: tra le stelle.
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